Bersani: resto sulla nave, darò una mano a Enrico
Anzi, per come si erano messe le cose era l’unica soluzione possibile, dopo il «triplice killeraggio» del governo di cambiamento, di Marini e di Prodi: «Avevo detto che non avrei abbandonato la nave, e non lo farò. Darò una mano a Enrico». Ma le dimissioni sono irrevocabili. La squadra dei ministri gli sembra «fresca e solida», c’è stato il ricambio che lui stesso aveva avviato con le liste elettorali, e ci sono uomini di esperienza che stima. Tra i nuovi ministri — come Bersani ha fatto notare ai collaboratori — ci sono personalità da lui scelte nella società civile, come l’olimpionica Josefa Idem e il rettore della Scuola Sant’Anna di Pisa Maria Chiara Carrozza. Ci sono amministratori con cui ha un ottimo rapporto, come Flavio Zanonato. E c’è il ministro dell’Economia che lui stesso avrebbe scelto, Fabrizio Saccomanni. Resta il fatto che non è questo il «governo di cambiamento» che Bersani aveva in mente. E non è questo il Pd che voleva.
Il segretario è deciso a non tornare sui suoi passi. Oggi, nella tranquillità di Piacenza — prima di ripartire per Roma dove domani voterà la fiducia al governo Letta —, comincerà a preparare il suo intervento all’assemblea di sabato prossimo, l’ultimo da leader del partito democratico. Con una premessa: non può essere Renzi l’uomo della transizione. Dovrà essere una personalità che unisce e non divide, dal profilo ben definito e ancorato a sinistra, a maggior ragione nel momento in cui si governa con la destra. Renzi se la potrà giocare alle primarie, in autunno, magari contro Barca. L’uomo a cui pensa Bersani come reggente è Guglielmo Epifani, che viene dalla tradizione socialista e ha governato un’organizzazione complessa come la Cgil; a meno che non prevalga pure al partito l’idea del cambio generazionale.
La giornata di ieri non ha risparmiato al segretario uscente le ultime seccature. Quando è uscita la voce di un suo ingresso al governo, non ha ritenuto neppure di dover smentire di persona. In realtà , come ha ricordato nelle conversazioni private, nulla impediva al leader del partito di maggioranza relativa di guidare personalmente un governo di larga coalizione. È quel che ha fatto la Merkel in Germania, dove fu il capo del secondo partito, Schroeder, a dimettersi. «Ma io non sono un uomo per tutte le stagioni. Il mio tentativo di un governo di cambiamento era sincero. Non ho mai pensato di governare con Grillo, né di dividere il suo movimento. L’idea era che i Cinque Stelle consentissero la nascita di un governo di forte discontinuità , imperniato sulla lotta alla corruzione e su una nuova politica economica; mentre nelle riforme istituzionali tutte le forze politiche sarebbero state coinvolte. Poi c’era l’elezione del presidente della Repubblica. Che è un’altra cosa ancora».
Bersani in questi giorni ha mantenuto i contatti — e una certa cordialità formale — con Renzi; ma il suo atteggiamento l’ha amareggiato. Non tanto per l’enfasi con cui i media hanno presentato come svolte cose che lui stesso aveva fatto: «Ero l’unico ad andare al Tg4, a criticare quelli che storcevano il naso, a dire che bisognava parlare a tutti gli italiani, compresi gli spettatori di Mediaset…». In realtà , il segretario non ha perdonato al sindaco di aver riaperto le ostilità subito dopo le elezioni. L’ha addolorato l’accusa di essersi «fatto umiliare» dai Cinque Stelle, confondendo un’apertura generosa con un cedimento. E ha trovato inaccettabile il sospetto di volere un cattolico al Quirinale per avere l’incarico per sé. Per questo ha tirato dritto su Marini, anche se fino all’ultimo (anche dopo la disastrosa prima votazione) ha provato a convincere Berlusconi a convergere su Mattarella o Cassese. Qui c’è stata la delusione più cocente: assistere all’ovazione in piedi per Prodi, e poi vedere saldarsi i rancori dei vecchi capi con i timori dei neoeletti. «È stato persino presentato un gesto di cordialità con Alfano come la prova vivente dell’inciucio. Come se non si sapesse che quello è il mio modo di fare». Quanto a Rodotà , la sua candidatura non è mai stata più di una suggestione: avrebbe diviso il Pd sul crinale più temuto da Bersani, quello tra laici e cattolici; rischiava di uscire battuto in un ballottaggio con la Cancellieri, appoggiata da Monti e Berlusconi; e in ogni caso è stato fin dall’inizio la bandiera dei Cinque Stelle, non a caso non si è ritirato di fronte a Prodi e neppure a Napolitano.
Deluso dalla vecchia guardia, a cominciare da D’Alema, Bersani ha mantenuto un rapporto sereno con Berlusconi. Gli riconosce di non aver voluto infierire: anziché candidare al Colle nomi che avrebbero lacerato ancor di più il Pd, il Cavaliere ha aperto alla rielezione di Napolitano, non ha accelerato sulle elezioni anticipate, ha rinunciato a inserire nel governo i suoi pasdaran. Ieri mattina, dopo un’ora di colloquio con Letta, Bersani ha lasciato filtrare una dichiarazione bellicosa — «non siamo tenuti a fare il governo a tutti i costi» — per aiutare il premier incaricato a sciogliere gli ultimi nodi, anche sul programma e sulle deleghe: no alla restituzione dell’Imu, criticata da Bersani in campagna elettorale come demagogica; no all’ipotesi di togliere al ministero dello Sviluppo economico le competenze sulle comunicazioni, quindi sulle frequenze tv. Quando ha capito che era fatta, verso mezzogiorno, Bersani è partito per Fiumicino. Atterrato a Linate, ha sentito al telefono ancora Letta e i capigruppo Speranza e Zanda. Poi il mesto ritorno a casa. Con il sollievo di aver fatto uscire il Pd dal vicolo cieco in cui si era cacciato. Ma soprattutto con l’amarezza di non essere stato apprezzato per le sue aperture. «Nessun segretario si è messo in gioco quanto me. Non ero tenuto a fare le primarie per la candidatura a Palazzo Chigi, e le ho fatte. Non ero tenuto a far scegliere la maggior parte degli eletti ai cittadini, e l’ho fatto». Una generosità che il partito non ha ripagato. Anche se la leadership dell’ultimo postcomunista ad aver guidato il Pd e sognato Palazzo Chigi in fondo era già finita con il voto del 24 febbraio.
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