Autopsia di un partito
Il secondo, ieri – presidente eleggibile a maggioranza semplice di 504 voti – il Pd ne ha fatti mancare a Prodi più di 100. Al fondatore dell’Ulivo, al suo “padre nobile”. All’uomo che la mattina era stato accolto dal gruppo come candidato al Colle con un applauso all’unanimità . Figuriamoci cosa sarebbe successo se non fossero stati unanimi. Prodi è rimasto sotto quota 400 – 395 voti – una vergogna. Rodotà , che – per motivi che nel Pd nessuno è riuscito ancora ad illustrare in pubblico con esattezza – non è considerato affidabile, ne ha avuti invece 50 in più. Sono arrivati, quei 50 voti, tutti dai parlamentari del Partito democratico. Difatti ieri pomeriggio Pdl e Lega non hanno votato. C’erano, nel conto dei voti, solo quelli del centrosinistra e di Monti. «Un voto che serve a ricompattarci, a contarci», aveva spiegato il segretario ai suoi: «Dimostriamo che ci siamo, poi alla quinta votazione eleggiamo Prodi con i quindici voti che mancano e che dai Cinque stelle, vedrete, arriveranno». Un attimo prima del voto il consigliere del segretario Miguel Gotor diceva che «non è escluso che arrivino subito, questi 15 voti, e che ce la si faccia oggi». E allora vediamolo, il ricompattamento. Cancellieri, candidata dei 66 montiani, ha preso 78 voti: 12 vengono dal Pd. Sel, che ha 44 parlamentari, ha votato Prodi indicandolo come “R. Prodi” secondo il vecchio metodo democristiano che serviva a contare il peso delle correnti: ieri abbiamo sentito nello spoglio Romano Prodi, Prodi
Romano, R.Prodi, Prodi, Prodi R. A ciascuna formulazione corrisponde una scheggia dell’alleanza. “R. Prodi” lo hanno scritto gli uomini di Vendola ed ha avuto 46 schede, due in più dei parlamentari di Sinistra e Libertà . Quindici hanno votato D’Alema, 3 Marini, 2 Napolitano. Un Fioroni, un Veltroni. Un perfido “Massimo Prodi” accolto da applausi a destra. Un Vittorio Prodi, fratello di Romano. Un Andreotti, forse un omaggio al metodo, o peggio. Un Migliavacca, che nel lessico interno della politica è una specie di sfottò al “tortello magico”, il cenacolo ristrettissimo che tiene «praticamente sequestrato il segretario», spiega Corradino Mineo ai cronisti, «è ormai impossibile parlarci direttamente », diceva ieri Anna Finocchiaro. Mineo: «Quelli del tortello sono Errani, Zoggia, Migliavacca e il portavoce, come si chiama, Di Traglia». Riassumendo: consigliato da alcuni fedelissimi il segretario del Pd ha non vinto le elezioni, non formato un governo con un non incarico e non fatto eleggere due candidati al Colle. Dal suo gruppo parlamentare è emersa un’indicazione chiarissima: contro Prodi, meno cento voti, in favore di Rodotà , più cinquanta. Ora: è chiaro che siamo in presenza di un disastro politico. Che siano stati i dalemiani a ordirlo, come qualcuno dice (Civati, fra i tanti) o che sia stata una vendetta dei mariniani traditi, o tutt’e due le cose ha poca importanza, alla fine. È stato, è un “suicidio politico”, scrive Pina Picierno su twitter. E Paolo Gentiloni, già candidato alle primarie romane in una sanguinosa rissa di correnti: «Siamo in preda alla cupio dissolvi».
C’è il vuoto di candidati possibili, al momento: nessuno vuole più essere indicato da Bersani per il Colle. Anche no, meglio di no, grazie no. Sembra una specie di condanna al pubblico ludibrio, la candidatura.
Il vero problema è che nessuno sembra aver capito, nel ristretto gruppo dirigente e di consiglieri del medesimo, che la grammatica della politica è radicalmente, definitivamente cambiata. Per colpa o per merito di Grillo, certo, ma non solo. Perché il Parlamento nuovo, composto da moltissimi giovani e donne, esce, a sinistra, in gran parte dalle primarie. E chi è stato eletto dalle primarie risponde ai suoi elettori, all’opinione pubblica che rappresenta o pensa di rappresentare, ai militanti del suo territorio e non al segretario. Enzo Lattuca, 25 anni, il più giovane degli eletti Pd, Lia Quartapelle, anche lei ventenne e come loro tutti i ragazzi usciti dalle primarie rispondono su fb e su twitter ai loro elettori: non hanno votato Marini al primo giro, per questo. In moltissimi, ieri, hanno votato Rodotà . La perdita drastica di autorevolezza dei leader si sposa all’irrompere sulla scena del “mondo fuori”, della delega che arriva dal territorio. È a quella che gli eletti, nello sfarinamento e nella mediocrità dei referenti parlamentari, rispondono. C’è poi lo spettro dei Cinque stelle dai quali il Pd è terrorizzato di farsi “dettare la linea” senza avvedersi del fatto che questo, nella totale insensatezza delle scelte, è già avvenuto. Alla fatidica domanda – perché non Rodotà – i dirigenti Pd rispondono balbettando che «non rappresenta il partito» (ma Marini e Prodi lo rappresentano?), che «avrebbe dovuto smarcarsi da Grillo dicendo che non è uomo suo» (questo è Gotor. Ma anche Prodi è stato indicato da Grillo, lui non doveva smarcarsi?), che «dopo Ciampi e Napolitano al Colle ci vuole un cattolico » (Epifani, ma poi bisogna eleggerlo, il cattolico). Andrea Cecconi, un giovane eletto dei Cinque stelle a Pesaro, dice che «non è vero che dal Pd sono venuti a cercarci, sono due mesi che non ci parla nessuno. Siamo qui e se non andiamo noi loro non vengono. Ma Rodotà non è il nostro candidato, è il loro: allora perché non lo votano? Ci vuole tanto a capire che se si elegge Rodotà e poi lui dà un incarico di governo è ovvio che quel governo noi lo sosteniamo?». In effetti non è difficile da capire. E l’argomento che «Rodotà è stato indicato da Grillo dunque non ci possiamo far imporre il candidato» somiglia tanto a quel «non appoggiamo i referendum perché li ha sostenuti prima Di Pietro», coi risultati che sappiamo. Dagli errori bisognerebbe imparare. Invece la ripicca, il dispetto, il malinteso orgoglio identitario provocano atteggiamenti, dice un altro Cinque stelle, Andrea Cioffi, «da asilo Mariuccia. Non ci dicano che non possono votare Rodotà perché lo indichiamo noi dopo aver provato a far eleggere il candidato che indicava Berlusconi.
Non sono credibili. Qual è la loro logica?». Paolo Cirino Pomicino dice che «quando non capisci qualcosa della politica devi andare a vedere dove sono i soldi», ride e se ne va. Verdini e Sposetti – i banchieri, i cassieri dei due schieramenti – sono stati in effetti gli sherpa degli accordi abortiti. I capannelli dei politici della prima Repubblica sono tutti attorno a loro. Ma questo Parlamento parla una lingua diversa, la musica della politica è cambiata. Una vecchia guardia che non prende nemmeno in considerazione Emma Bonino, l’unico esponente politico italiano elencato tra i più influenti nel mondo, che scarta i suoi candidati per dispetto, perché li ha indicati prima qualcun altro. Una vecchia guardia sconfitta, capace solo di dare al mondo uno spettacolo indecente di sé. Si potrebbe eleggere D’Alema coi voti del Pdl, diceva ieri qualcuno. Certo, come no. Si potrebbe anche fare adesso quel che sarebbe stato sensato fare subito: indicare un candidato votabile da una maggioranza che poi sia anche una forza di governo. Si è sbagliato con Marini, nell’intesa con Berlusconi. Sbagliato il metodo, sbagliato il nome. Si è sbagliato con Prodi nell’illusione di salvare il Pd. Bisognerebbe ora alzare bandiera bianca, evitare di spargere altro sangue. Cancellieri e Rodotà hanno preso più voti dei loro: si ascolti l’aula, si apra la vera gara. Prima il Paese. Poi la resa dei conti nel Pd, con Renzi alle porte, si farà dopo. Può essere difficile da capire ma davvero: il destino di pochi è meno importante del destino di tutti.
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