by Sergio Segio | 4 Aprile 2013 7:28
LONDRA. Il signore con la lobbia, l’impiegato con la bombetta, il lavoratore con la scoppola: queste erano, finora eterne e incontrastate, le tre immagini delle classi sociali inglesi, distinte fin dal cappello in “upper”, “middle” e “working class”.
Ma ora in Gran Bretagna le classi sociali sono diventate sette, con l’élite seguita da due “middle class” e con i “worker” tradizionali sovrastati dai lavoratori arricchiti e seguiti dai lavoratori emergenti del terziario. L’analisi che lo certifica è autorevolmente prodotta dalla Bbc con i professori Mike Savage della London School of Economics e Fiona Devine dell’Università di Manchester, che hanno analizzato i dati forniti da 161mila persone.
Lo studio non si è basato solo su occupazione, istruzione e reddito, ma sull’intrecciarsi di tre dimensioni differenti, economica, sociale e culturale, valutando i tre “capitali” che una persona può avere. Il primo, materiale, computa introiti, risparmi, valore dell’abitazione. Il secondo analizza quantità e status sociale delle proprie conoscenze. Il terzo, quali e quanti interessi e attività culturali esistono nella vita di una persona. Il risultato è una foto della Gran Bretagna del 21º secolo.
L’“élite” continua ovviamente ad avere il massimo dei tre capitali, fra belle case, buone e vaste amicizie, ma anche qualificati e approfonditi interessi culturali. Che sono invece ciò che fa un poco difetto al membro della “established middle class”, la classe media “arrivata”, ben messa per beni e conoscenze, molto ampia con il suo 25% della popolazione, ma che resta seconda in cultura, come di sicuro gli ex “upper class” ora “élite” non mancheranno di notare a ogni occasione. E invece piccolo e ben distinto il gruppo successivo della classe media “tecnica”, economicamente
prospero, ma fuori dai riti del benestante classico, segnato com’è da una «marcata apatia culturale» e un netto «isolamento sociale».
Completamente diversi i “nuovi lavoratori benestanti”: giovani, socialmente e culturalmente attivi, ma quanto a soldi «a livelli mediocri». In un party o un’inaugurazione immaginari, è probabile che arrivino ben vestiti, però pronti a godersi più del normale tramezzini e cocktail. E questa fascia intermedia, non più “working class” né “middle class” tradizionale, è quella più interessante secondo Fiona Devine. «Sono gruppi», spiega, «che non vedono più se stessi come classe media o lavoratrice».
Finite le nuove distinzioni fra le ex lobbie e le ex bombette, si apre il capitolo del vero lavoratore, con la storica, orgogliosa “working class” ormai spezzettata. Il primo gruppo, “tradizionale”, è solo il 14% della popolazione. Punta più al pub e alla partita che all’inaugurazione e ha bassi punteggi in tutte le categorie, ma ha case di ragionevole valore. Con un’età media di 66 anni, è il gruppo più anziano. Sotto questi rappresentanti di un mondo passato, emergono i “lavoratori del terziario”. Giovani e nuovi abitanti urbani, vantano tasche vuote e capitali culturali e sociali in ottimo stato. Puntano anche loro alle inaugurazioni, magari di tipo diverso da quelle delle fasce alte. Ed è facile immaginare che siano la base di lancio per un nuovo artista, o gli artefici del successo di un nuovo quartiere.
Come spiega ancora Fiona Devine, loro e i «nuovi ricchi» saliti al quarto posto sono i figli della “working class” tradizionale ormai sessantenne. Ultimi, arrivano i “proletari precari”, coloro che, come le “élite”, non sono mai mancati: un 15% di poveri veri, con poco o niente di qualsiasi cosa, precari nel lavoro e nella vita. Esistevano anche ai tempi di scoppola, bombetta e lobbia, ma non c’era un cappello per distinguerli. Adesso hanno conquistato un posto in graduatoria, l’ultimo.
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