A lezione di crescita dalla piccola Islanda

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LA RAGIONE per cui gli Stati Uniti dedicano tanta attenzione alla sfida islandese, ha qualcosa a che vedere con un premio Nobel dell’economia. Paul Krugman, che si alterna fra i corsi all’università  di Princeton e le sue column sul New York Times, ha scelto l’Islanda come un contro-modello. È diventata così un paradigma alternativo, rispetto all’austerity imposta dalla Germania all’eurozona: quest’ultima denunciata invece come una politica distruttiva da Krugman e altri neokeynesiani (Jeffrey Sachs, Joseph Stiglitz, Robert Solow).
«Ci sono analogie tra Cipro e l’Islanda — sostiene Krugman — perché anche l’Islanda aveva un settore bancario ipertrofico, gonfiato da depositi di stranieri, troppo grande per essere salvato. La risposta dell’Islanda fu essenzialmente di lasciar fallire le banche, cancellando i crediti degli stranieri, e proteggendo invece i piccoli risparmiatori nazionali. Il risultato non è niente male. L’Islanda ha un tasso di disoccupazione molto inferiore al resto d’Europa, è uscita dalla crisi». Per la precisione, il tasso di disoccupazione islandese oggi è del 4,7% e la sua economia è cresciuta dell’1,6% l’anno scorso: numeri che fanno sognare i paesi membri dell’eurozona, Germania inclusa. Krugman aggiunge che l’Islanda ha avuto un’altra funzione pionieristica «introducendo i controlli sui movimenti di capitali, e ottenendo la benedizione del Fondo monetario internazionale », secondo una ricetta poi adottata anche da Cipro. La differenza sostanziale tra le due isole è un’altra. L’Islanda non fa parte né dell’Unione europea (pur avendo presentando domanda di accesso nel 2010) né tantomeno della moneta unica. Reykjavik si è risollevata dalla tremenda recessione del 2009 anche grazie a una svalutazione poderosa, ha deprezzato la sua krona del 50% sull’euro.
Sulle due sponde dell’Atlantico, il voto di questo sabato attira attenzione anche perché coincide con una fase cruciale. I dati sull’economia europea peggiorano costantemente, in aprile è arretrata anche la produzione tedesca, tutti gli indici di attività  del Vecchio continente sono in rosso. Il disagio sociale è così acuto che il presidente della Commissione di Bruxelles, José Manuel Barroso, parla ormai di un’austerity che «ha raggiunto i suoi limiti politici».
Il modello islandese, se così lo si può definire, cominciò a distinguersi alla fine del 2008 quando il governo di Reykjavik lasciò fallire le tre maggiori banche — Kaupthing, Landsbank i Glitnir — che insieme pesavano dieci volte il Pil nazionale (un’aberrazione perfino superiore a quella di Cipro). Invece di salvarle a spese del contribuente, o di limitare i danni per i possessori di obbligazioni come avvenne in Irlanda, per il crac delle banche islandesi furono i grossi creditori internazionali a rimanere con il cerino acceso in mano.
Questo non significa che l’operazione sia stata del tutto indolore per i contribuenti. In realtà  le tre banche sono comunque costate il 20% del Pil nazionale, per effetto della rovinosa caduta degli attivi che avevano depositato come garanzie presso la banca centrale.
A giudicare dal clima dell’opinione pubblica alla vigilia del voto di sabato, gli islandesi non sono soddisfatti del proprio “modello”. I sondaggi prevedono uno spostamento di voti senza precedenti: quasi la metà  degli elettori pensa di cambiare partito rispetto all’ultimo scrutinio (2009). I vincitori di quattro anni fa, saranno quasi certamente gli sconfitti di sabato. Oggi a Reykjavik governa una coalizione di sinistra, socialdemocratici e verdi. Sabato sera con ogni probabilità  i vincitori saranno i due partiti del centro destra, che si chiamano rispettivamente partito progressista e indipendente. C’è un outsider, rappresentato dai Pirati, con alla testa una donna: Birgitta Jonsdottir. I Pirati potrebbero essere la grossa sorpresa, piazzandosi forse perfino al secondo posto.
Dietro questo terremoto elettorale c’è un malcontento che segnala il punto debole del “modello islandese”.
La svalutazione funziona come terapia d’urto per riguadagnare competitività , rilancia le esportazioni, e così fa ripartire la crescita. Ma nel medio periodo i suoi contraccolpi si fanno sentire. In due modi. Da una parte con la moneta debole è ripartita anche l’inflazione che raggiunge il 4% e impoverisce il potere d’acquisto dei salari. D’altra parte molti islandesi hanno dei debiti (mutui-casa) indicizzati all’inflazione, le cui rate diventano più pesanti. E’ un monito verso altri paesi tentati di usare la svalutazione? Per la verità  né gli Stati Uniti né il Giappone hanno timore a indebolire le proprie monete, perché si tratta di economie molto più grandi. Questo varrebbe anche per l’eurozona, che potrebbe deprezzare la moneta unica senza pagarne immediatamente uno scotto in termini di inflazione importata (soprattutto in una congiuntura così depressa, con tante risorse inutilizzate).
L’opinione pubblica islandese, pur nel suo malcontento, non sembra pentita di avere imboccato una strada molto diversa dall’eurozona. Il rimprovero rivolto alla coalizione di centro-sinistra, è di non essere stata abbastanza audace nel perseguire una strada alternativa. Sigmundur Gunnlaugsson, capo del partito progressista e uno dei candidati al posto di premier, deve la sua popolarità  al fatto di avere promesso uno “sconto” del 20% su tutti i mutui casa, da addebitare ai creditori stranieri. E se i socialdemocratici rischiano di vedere dimezzati i loro voti rispetto al 2009, è anche per aver presentato domanda di adesione
all’euro.


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