by Sergio Segio | 10 Aprile 2013 7:12
Non sono tanto o solo i numeri a fare impressione nel rapporto di Amnesty International sulla pena di morte nel mondo nel 2012. Le cifre ufficiali — 682 condanne eseguite contro le 680 nel 2011 — sono inevitabilmente riduttive. Nella sola Repubblica popolare cinese, che mantiene il record planetario, sono state infatti ancora una volta «migliaia» le persone messe a morte, un numero superiore a quello delle esecuzioni nel resto del mondo. Ma Pechino mantiene segreti gli elenchi. E lo stesso avviene in Nord Corea, Vietnam, Malaysia, mentre altrove i dati sono incompleti: un conto globale affidabile è davvero impossibile.
Possibili sono invece — per gli altri Paesi che ancora non fanno parte dei 111 firmatari della moratoria Onu sulla pena di morte e neppure dei 63 che nel 2012 non l’hanno applicata — alcune considerazioni. A partire dai due elenchi qui in alto: né il primo gruppo (traffico di droga…), né il secondo (blasfemia…) fanno parte dei «reati più gravi» per cui è prevista la condanna a morte dall’articolo 6 del Patto Internazionale sui Diritti Civili e Politici dell’Onu, fa notare Amnesty (anche se un protocollo aggiuntivo ha poi vietato la pena capitale salvo in tempo di guerra). E se i reati «non gravi» del primo elenco sono stati causa di condanne eseguite in vari Paesi a partire dalla Cina, il secondo riguarda i Paesi musulmani dove la sharia domina nell’interpretazione più impermeabile alla modernità e al diritto internazionale. E dove buona parte delle persone uccise nel 2012 non erano colpevoli di omicidio premeditato ma di «ostilità verso Dio», sodomia, adulterio, stregoneria e traffico di stupefacenti, soprattutto nella Repubblica islamica e nel Regno saudita.
Non è un caso quindi che in Medio Oriente nel 2012 siano state ben 557 le esecuzioni, concentrate in soli sei Stati (sui 19 dell’area) e in particolare in Iran, Arabia Saudita e Yemen, nonché in Iraq dove le condanne eseguite sono quasi raddoppiate a 129, molte delle quali «per terrorismo». Proprio l’ex terra di Saddam è balzata al terzo posto nella classifica di Amnesty per numero di esecuzioni, subito dopo Cina e Iran, e prima di Arabia Saudita, Stati Uniti, Yemen, Sudan, Afghanistan, Gambia e Giappone. Ancora in Medio Oriente, Amnesty dichiara l’impossibilità di accertare se ci siano state esecuzioni in Siria e in Egitto mentre segnala che in Tunisia 125 pene capitali sono state commutate (e nessuna quindi eseguita). In un altro Paese musulmano, il Pakistan, si è avuta invece la prima esecuzione dopo quattro anni, per «blasfemia». E altri due Paesi hanno interrotto una moratoria de facto: il Gambia, dopo quasi tre decenni, e l’India, dopo otto anni. Nel Subcontinente in novembre è stato impiccato il pachistano Ajmal Kasab, unico sopravvissuto tra i terroristi che nel 2008 a Bombay uccisero oltre 150 persone. Un caso che sembrerebbe indicare, in questa fase di timori italiani per i marò processati a Delhi, che l’India intenderebbe davvero applicare la pena capitale solo per i «reati più gravi».
Infine l’attenzione va necessariamente agli Stati Uniti, con le sue 43 esecuzioni e il suo quinto posto mondiale. Unico Paese delle Americhe nella lista, gli Usa dividono con la Bielorussia (unico Stato in Europa e Asia Centrale) il dubbio onore di essere i soli due membri tra i 56 dell’Osce ad aver mandato a morte dei condannati nel 2012. Un piccolo segnale positivo, sostiene Amnesty, viene comunque dal fatto che le condanne siano state eseguite in nove Stati rispetto ai 13 del 2011, e che in aprile il Connecticut sia diventato il 17° Stato abolizionista della federazione. Ma il numero dei mandati a morte è rimasto invariato dal 2011. E ancora ieri notte era attesa in Texas l’esecuzione di un omicida che per i suoi avvocati sarebbe malato di mente. Salvo colpi di scena comparirà nel prossimo rapporto di Amnesty, insieme ai molti condannati che si prevede lo seguiranno nello stesso Stato americano: almeno dieci entro luglio.
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