Voto, governissimo, leader: il Pd è già  diviso

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ROMA — Per spiegare quello che sta succedendo nel Pd occorre prendere in prestito le parole di Matteo Richetti, neodeputato renziano, che si è candidato alle primarie e si è dimesso dalla presidenza del consiglio regionale dell’Emilia-Romagna: «Quello che si dice in Direzione non è la fotografia del vero dibattito che c’è nel partito. Ciò che si dice nel Pd un minuto prima e un minuto dopo quella riunione è diverso da ciò che si dice lì».
Accade così a ogni Direzione del Partito democratico. Ed è successo anche ieri. Dopo la grande prova di unanimità  di mercoledì, i dirigenti del Pd tornano a dividersi. E non su un argomento da poco, ma sulle elezioni. Già , se Bersani fallisce, che cosa si deve fare? Consentire comunque la nascita di un governo o correre alle urne? È su questo interrogativo che il Partito democratico si divide e si lacera.
Pier Luigi Bersani non ha dubbi. Innanzitutto il segretario non dispera ancora di riuscire a mettere su un suo governo: «Ci vuole del tempo», spiega ai fedelissimi. Del tempo per convincere una parte dei grillini del Senato a non obbedire ciecamente al loro leader. «Io — è la spiegazione che dà  Bersani ai suoi interlocutori di questi giorni — non chiedo a Grillo un’alleanza politica, so che sarebbe una cosa fittizia». Se non va in porto questo tentativo, per il leader del Pd la strada maestra rimane quella delle elezioni: «E la responsabilità  sarà  di Grillo, perché è lui che fa saltare il banco, perché certo io non mi metto a fare un governo con il Pdl per fare piacere a lui. Il suo gioco è chiaro: vuole mettere gli oneri della governabilità  sulle nostre spalle e continuare a prendere i voti della protesta».
Con il segretario su questa linea, senza se e senza ma, ci sono i giovani turchi. Il responsabile economico Stefano Fassina è netto. Anzi, è nettissimo: «Non andremo mai con il Pdl e non appoggeremo un governo tecnico, o riesce questo tentativo del segretario o si va al voto». E tanto per gradire Fassina riserva una stoccata anche a Renzi: «Non abbiamo bisogno di un altro Unto del Signore, come Berlusconi». Un altro esponente di spicco dei «giovani turchi», Matteo Orfini, è altrettanto determinato: «Voto e primarie». La pensano allo stesso modo due fedelissimi di Bersani, come Maurizio Migliavacca e Vasco Errani.
Ma tutti gli altri big non sono su questa linea. Non lo è Dario Franceschini. Il capogruppo in Direzione ha chiesto «una gestione collegiale» del Pd. Il che tradotto dal politichese è una richiesta se non di commissariamento, almeno di condizionamento di Bersani. E il suo braccio destro Antonello Giacomelli ieri ha attaccato proprio il duo Fassina-Orfini. Sulle elezioni, ma anche sul loro atteggiamento nei confronti di Renzi. Pure Rosy Bindi frena il segretario: sarà  Napolitano a decidere sulle elezioni. E Paolo Gentiloni è, come al solito, il più chiaro: «Se Bersani fallisce, non si torni al voto». Anche Enrico Letta ritiene che le elezioni sarebbero una sventura. Lo stesso dicasi per Beppe Fioroni. In parole povere tutti gli ex margheritini di peso sono contrari al voto anticipato. Di più: eccezion fatta per Bindi, vedono tutti di buon occhio Renzi come candidato premier, convinti che potrebbe essere l’uomo giusto per guidare alla vittoria un’alleanza tra centrosinistra e moderati. Veltroni ex margheritino non lo è mai stato, però non fa mistero di volere un governo del presidente e non certamente le urne.
Infine, Massimo D’Alema che, per dirla con Renzi, in Direzione ha «dato lezioni di inciucio». L’ex premier in quella riunione ha rifilato una stoccata al segretario che è sfuggita ai più, ma non a chi lo conosce bene: «A Roma, alle elezioni regionali, Nicola Zingaretti ha avuto 6 punti in più di quelli del centrosinistra alle politiche e Grillo ha preso 6 punti in meno». Come a dire: la colpa della sconfitta è anche del candidato premier che non è riuscito a prendere consensi che non erano inafferrabili.
Dunque, al Pd scorrono i veleni e si affilano le armi, insomma si torna alla vita di sempre.


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La stampella delle primarie

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È tempo di primarie. Sembra proprio che i partiti esangui della sinistra abbiano trovato una formula magica per superare d’emblée la crisi d’identità  nel quale versa l’intero sistema politico. In fondo la soluzione di tutti i problemi è apparsa la più semplice: chiamare a raccolta il popolo della sinistra. E questo ha risposto in massa.
Inebriati dal buon risultato, le primarie nel campo progressista stanno diventando la regola aurea per la selezione del ceto politico. È bene che sia così?

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