“Vogliono creare un mondo dove gli arabi non esistono”

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«Se per anni e anni sali su un autobus dove ti maltrattano, magari va a finire che non ce la fai più e quando te ne assegnano uno tutto per te sei pure contento, anche se l’idea che c’è dietro è sbagliata». Lo scrittore israeliano Assaf Gavron sceglie un punto di vista provocatorio, per commentare gli autobus “per palestinesi” inaugurati lunedì che hanno suscitato proteste e accuse di razzismo e apartheid, da parte di israeliani oltre che delle autorità  e dei sindacati palestinesi. «Sono con chi protesta», precisa Gavron, che nel suo libro La mia storia, la tua storia ha cercato di immedesimarsi sia in un israeliano sopravvissuto a più attentati che in un palestinese sospettato di essere un terrorista, partendo dal punto di vista, costantemente terrorizzato, di un passeggero di uno di quegli autobus che sono stati spesso oggetto di attentati a Tel Aviv.
Gavron, da cosa nasce un’iniziativa simile?
«Da una brutta atmosfera, un’idea orribile e un luogo molto negativo. I coloni non vivono bene con i palestinesi e i palestinesi vengono maltrattati da tutti, anche sugli autobus. L’idea di crearne alcuni apposta per loro è analoga a quella dell’anno scorso, molto imbarazzante, che riguardava le donne, da tenere separate, secondo gli ultraortodossi, sempre sugli autobus. In entrambi i casi si tratta di discriminare un gruppo su un mezzo di trasporto. Anche se ci sono molte differenze, una soprattutto: lì si trattava di religione, qui si tratta di politica. Ma io insisto, bisogna sapere com’è la vita di tutti i giorni, la vita reale delle persone, prima di giudicare. Una contraddizione rischia di diventare una cosa buona alla fine, nonostante tutto».
I palestinesi però protestano e l’altro ieri notte due di quegli autobus sono stati incendiati.
«Sono dalla loro parte. Non sono con chi incendia autobus, naturalmente, ma con chi è contro il razzismo insito in un fatto del genere. Il problema è che gli israeliani continuano a cercare di creare un mondo nel quale i palestinesi non esistono, non si vedono, sono stati cancellati. Ma condividiamo la stessa terra e dovremmo invece vederci, guardarci l’un l’altro, condividere la vita e anche l’autobus, naturalmente».
Trova similitudini con gli Stati Uniti degli anni Cinquanta, dove sui bus i neri dovevano viaggiare separati dai bianchi? Il movimento di Martin Luther King partì da lì.
«Non mi piace fare paragoni, cercare analogie, parlare di altre proteste. La nostra è una situazione molto specifica. Il presente israeliano è davvero peculiare. Adesso è in arrivo un nuovo governo, credo un poco meno peggio del precedente. Ci sarà  presto la visita di Obama e almeno una parte di questo nuovo governo dovrebbe voler riaprire il dialogo con i palestinesi. Sono in pochi a volerlo, ma forse la situazione almeno in parte migliorerà , sebbene ci sia sempre Netanyahu».
Delle paure dei coloni, cosa pensa?
«Certo gli attentati, agli autobus e altrimenti, ci sono stati, ma da due anni va molto meglio. E io capisco la paura, senza dubbio, ma va detto che ha origine sempre nella stessa cattiva idea: non voler vedere i palestinesi. Però, anche in questo caso, bisogna guardare le vite vere. Oltre ai tanti coloni che vorrebbero escludere dal loro mondo i palestinesi, nei Territori occupati ci sono anche coloni che lavorano e vivono con loro: sono amici, passano il fine settimana insieme. Sono una minoranza ma esistono e bisogna tenerne conto, prima di giudicare. Le situazioni vanno guardate da vicino, accettando la loro complessità  e studiandola. Nei miei libri, cerco di fare proprio questo. È il mio modo di essere ottimista, e di combattere ogni razzismo».


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