Violenza zero
Non fatevi fuorviare dai giornali. La preghiera laica dell’uomo moderno è vittima di un errore di parallasse. Siamo troppo vicini ai fatti per metterli a fuoco. Guerre, omicidi, stupri: ci sentiamo soverchiati. Ma è solo perché if it bleeds it leads, se sanguina allora vende. Le buone notizie non fanno notizia. Nemmeno quella migliore di tutti, ovvero che viviamo nel periodo storico più pacifico di ogni tempo. Se ci sembra diversamente, cambiamo le lenti. Assumiamo la prospettiva lunga e ci renderemo conto che le straordinarie catastrofi di oggi sono niente rispetto all’ordinaria tregenda di ieri.
Ne è convinto Steven Pinker, psicologo e neuroscienziato a Harvard, e l’ha messo per iscritto in un tomo ponderoso dal titolo inequivoco: Il declino della violenza
(Mondadori), in libreria da domani. Molto apprezzato da Bill Gates («Cambia il modo di pensare») e dal filosofo di Princeton Peter Singer («Supremamente importante»), quanto sbertucciato da Elizabeth Kolbert sul New Yorker che ha definito «confondente» l’approccio e «ambigui» i dati che usa, come dal filosofo britannico John Gray, che non condivide affatto la tesi di fondo.
Professore, perché ha deciso di scrivere un libro così controintuitivo?
«Lavorando su testi precedenti mi ero imbattuto in dati sulla drammatica riduzione di morti violente dalle società non statali a oggi, oltre ad altri progressi come la fine dello schiavismo e l’abolizione delle pene corporali. Così quando la rivista Edge.org mi chiese “su cosa ero ottimista” risposi “sul declino della violenza”. Altri studiosi commentarono, aggiungendo varie altre prove a favore. E mi convinsero che era una vicenda non molto nota, che andava raccontata».
Sfidando i manuali di storia del XX secolo e la quotidiana lettura dei giornali…
«Bisogna guardare i dati. E i dati ci dicono che nelle guerre ai tempi delle società non statuali periva circa il 15 per cento della popolazione, mentre oggi non si arriva neppure all’uno. Quanto agli omicidi, siamo passati dai 110 su 100mila abitanti nella Oxford del XIV secolo all’uno della Londra di metà del XX se0colo. Per quanto riguarda i giornali, ricordiamoci che le notizie sono le cose che accadono, non quelle che “non accadono”. Sino a quando la violenza non arriverà a zero, ci saranno sufficienti fatti criminosi con cui aprire il tg. Ma agli scienziati deve importare la tendenza: andava meglio prima? No, molto peggio ».
Lei cita sei tendenze che proverebbero il suo argomento. Ce le riassume?
«La “pacificazione”, ovvero il passaggio dalle società basate sulla caccia a quelle agricole, di circa 5.000 anni fa, con cui si registrò un calo di cinque volte delle morti violente. Il “processo civilizzante”, tra Medioevo e il XX secolo, con cali negli omicidi tra 10 e 50 volte. La “rivoluzione umanitaria”, che coincide con l’Il-luminismo, in cui si formano i movimenti per abolire schiavitù, tortura, uccisioni
superstizione. La “lunga pace”, dopo la Seconda guerra mondiale. La “nuova pace”, dalla fine della Guerra fredda. Sebbene qualche lettore potrà faticare a crederci, da allora conflitti, genocidi e attacchi terroristi sono diminuiti rispetto al passato. Infine le “rivoluzioni dei diritti”, che hanno portato a meno violenze contro gli omosessuali, le donne, le minoranze etniche».
Quali sono stati i principali fattori pacificatori?
«L’emergenza di uno Stato con il monopolio del legittimo uso della forza riduce la tentazione della vendetta. Poi il commercio, favorito dal progresso tecnologico, per cui diventa più economico comprare le merci che saccheggiarle e dove gli interlocutori diventano più preziosi da vivi che da morti, se no a chi vendi? Quindi le forze del cosmopolitismo, intese come mobilità , alfabetismo e mass media, che allargano i contatti tra le persone e rendono più facile mettersi nei panni altrui e assumere la loro prospettiva ».
Altrove però lei accusa il giornalismo di «distorcere la prospettiva storica per mancanza di cultura statistica». È ciò che chiamano «distorsione di disponibilità », per cui tendiamo a citare gli esempi più a portata di mano, anche se non statisticamente significativi?
«La mancanza di cultura statistica è un problema serio per l’intera classe intellettuale. Dovremmo insegnarla in ogni ordine e grado. E prendere l’abitudine di verificare le nostre affermazioni al vaglio fattuale e scientifico. Il successo di libri come Pensieri lenti e veloci di Daniel Kahneman, o di Moneyball di Michael Lewis o di The Signal and the Noise
di Nate Silver in cui baseball e politica rispettivamente sono analizzati con metodo statistico sono segnali di speranza».
Ha fatto discutere, nella sua classifica “atrociologica”, il fatto che la Seconda guerra mondiale fosse solo al nono posto quanto a numero di morti rispetto alla popolazione mentre la rivolta An Lushan nella Cina dell’VIII secolo al primo. Come spiega questa ignoranza collettiva?
«Soffriamo di miopia storica: gli eventi più vicini sono più chiari, con più fatti e con ricordi più vividi. Nei secoli precedenti non avevano la Cnn.
Si aggiunga che le atrocità sono spesso usate come munizioni nei dibattiti. Chi vuole criticare la modernità ha bisogno di sostenere che i peggiori episodi siano accaduti nei tempi moderni».
Lei è uno psicologo evolutivo. Nel dibattito sui ruoli di natura e cultura, in passato è sempre sembrato a favore della prima. Stavolta tiene in maggior considerazione la cultura, o sbaglio?
«Credo che sbagli, anche se non è il primo a rivolgermi questo appunto. Ciò che sostengo da sempre è che la natura non può essere ignorata, che non siamo una tabula rasa. Nello specifico, il cambiamento culturale è necessario per spiegare il declino della violenza (non è passato abbastanza tempo per spiegarlo in termini evolutivi darwiniani), ma la natura umana serve per spiegare il cambiamento culturale. Abbiamo usato la cognizione, l’autocontrollo e l’empatia per contrastare l’istinto di vendetta, di dominio o di sadismo».
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