by Sergio Segio | 14 Marzo 2013 11:56
WASHINGTON — Barack Obama ha cercato di fare dei distinguo ma l’accusa è rimasta: dietro alcuni degli attacchi hacker contro gli Usa ci sono apparati statali cinesi. Un nuovo colpo in quella che ormai è diventata la campagna psicologica e politica per mettere in guardia sulla nuova minaccia. La cyber war, la guerra cibernetica. Un tema che va forte a Washington e dintorni, specie in quelle società che si occupano del binomio sicurezza-tecnologia.
In un’intervista alla rete televisiva Abc, il presidente ha prima cercato di ridimensionare lo scontro. «C’è una grande differenza tra il cyber spionaggio o cyber attacchi e, ovviamente, un vero conflitto», ha affermato provando a separare le incursioni dei «pirati» da un eventuale conflitto tra i Paesi. Rassicurazioni però indebolite dall’accusa contro quegli elementi, legati a intelligence e difesa cinesi, ritenuti coinvolti in molte scorrerie. Azioni per spiare, manipolare ma anche sottrarre informazioni strategiche o economiche. Per Obama i servizi di sicurezza hanno registrato «un costante incremento di minacce alla sicurezza informatica. Alcune sostenute dallo Stato, altre da criminali». Una duplice sfida che provoca danni. Nell’intervista il presidente ha parlato di «segreti industriali che vengono rubati», di «aziende messe in una posizione di svantaggio», di «interruzioni» a sistemi importanti. Dunque denaro e segreti che vanno in fumo.
Davanti alle incursioni dei cinesi — ma non solo — la Casa Bianca ha deciso di reagire studiando contromisure adeguate e chiedendo a Pechino di piantarla: «Abbiamo messo in chiaro con la Cina e con altri Stati che ci aspettiamo che seguano le norme internazionali». Ma come ci può aspettare che dei «pirati» rispettino delle regole? Il loro gioco preferito è proprio quello di aggirarle. Ne sa qualcosa la stessa famiglia presidenziale. Misteriosi hacker si sono impadroniti di informazioni riservate di Michelle Obama così come di altri personaggi della politica e dello spettacolo. Episodi, se vogliamo, minori ma che contribuiscono a rendere concreto l’allarme. E, infatti, in Usa è ormai un coro.
Le parole del presidente sono state precedute da quelle di James Clapper. Il Direttore dell’intelligence, in una deposizione al Senato, ha sostenuto che i cyber attacchi hanno sostituito il terrorismo quale minaccia numero uno per gli Stati Uniti. E dunque è necessario adottare difese adeguate per fronteggiarlo. L’intervento di Clapper ha dato ufficialità a quanto emerso in questi ultimi mesi con l’accumularsi di prove sul coinvolgimento cinese nelle attività illegali attraverso la rete. E in particolare sul legame — solido, secondo l’accusa — tra gli hacker e un’unità speciale dell’esercito cinese. In un rapporto ufficiale del Congresso si è parlato della «più grave minaccia nello spazio cibernetico». Tracce importanti hanno poi permesso a chi indaga di accertare responsabilità in attacchi contro i media statunitensi, ultime vittime di una lunga campagna lanciata negli ultimi anni da parte dei cinesi. Il New York Times, ad esempio, è stato preso di mira dopo che ha pubblicato articoli su importanti dirigenti di Pechino e i loro affari economici.
Allargando l’orizzonte, gli americani non guardano comunque soltanto alla Cina. La Corea del Nord e l’Iran, ad esempio, sono altri due Paesi guardati con sospetto. Il Pentagono da oltre un anno continua a lanciare l’avvertito: «Possiamo rischiare una Pearl Harbor digitale». Ossia un attacco a sorpresa e massiccio sferrato dal nemico per mettere in ginocchio le infrastrutture Usa. Uno scenario che tuttavia è stato criticato da alcuni esperti per i quali si tratta di una esagerazione. Ad ogni modo il dipartimento della Difesa ha studiato piani per parare un possibile colpo così come una possibile risposta. Per gli strateghi le forze armate devono essere in grado di lanciare un’offensiva massiccia.
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