Undici giorni di follia diplomatica con due pescatori morti sulle spalle
CALCUTTA.Dopo undici giorni di ordinaria follia diplomatica, dal 22 marzo qui in India si è tornati ad aspettare che la spinosa vicenda dei due marò, dopo oltre tredici mesi, raggiunga finalmente una conclusione. Il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura, in un tour de force che lo ha portato negli studi televisivi di tutti i canali in lingua inglese dell’etere indiano, è stato molto chiaro: qualsiasi sia la conclusione, basta che arrivi in fretta.
Il travagliato iter legale dei due fucilieri del reggimento San Marco Salvatore Girone e Massimiliano Latorre inizia, secondo la vulgata, con un «tranello». In questi mesi la diplomazia italiana ha sostenuto, e ora con maggior forza lo rivendica, che la petroliera Enrica Lexie la sera del 15 febbraio 2012 sia stata attirata al porto di Kochi, Kerala meridionale, con un bieco tranello tirato dalla guardia costiera indiana.
Ci sono oggi alcuni fatti, accettati anche dalla difesa dei due marò in India. L’Enrica Lexie, intorno alle 16.30, si trovava a 20.5 miglia dalla costa indiana: non in acque internazionali né territoriali, bensì entro le 24 miglia della zona contigua, il tratto di mare adiacente al mare territoriale in cui lo stato può estendere la propria giurisdizione nelle materie di immigrazione, fiscali e doganali e altre finalità legali a diritti fondamentali. In India il Maritime Zone Act del 1976 estende la giurisdizione alla zona contigua al fine di mantenere la «sicurezza della Nazione». In aggiunta, secondo la section 188a del codice di procedura criminale indiano – introdotta tramite notificazione dal governo – la giurisdizione è estesa addirittura fino alle 200 miglia nautiche, come negli Usa durante il proibizionismo e come attualmente in Cina.
Gli spari dei due marò, dicono i test balistici condotti in India alla presenza di due tecnici italiani, hanno ucciso due pescatori indiani a bordo del peschereccio St. Antony. Il peschereccio indiano lancia l’allarme e, dopo due ore e mezza dal fatto, vengono contattate via radio le imbarcazioni sospettate di essere coinvolte nel presunto «attacco pirata»: l’Enrica Lexie, la Kamome Victoria, la Giovanni e la Ocean Breeze.
Delle quattro l’unica a rispondere affermativamente è l’Enrica Lexie. «Abbiamo respinto dei pirati» dicono alle autorità indiane. Ma ora è tutto sotto controllo, il peggio è passato, e infatti l’Enrica Lexie sta continuando lungo la rotta prestabilita. In due ore e mezza, contravvenendo ai protocolli standard, la petroliera si era allontanata di ben 70 km dalla «scena del delitto» senza avvertire nessuno.
Le autorità indiane intimano al capitano Vitielli di invertire la rotta e tornare al porto di Kochi per chiarire tutta la faccenda, adducendo la scusa di un «riconoscimento dell’imbarcazione». Oltre al monito verbale, dalla costa indiana salpano i due pattugliatori Shamar e Lakshmi Bhai e decolla l’aereo di sorveglianza marittima Dornier Do 228, per assicurarsi che l’Enrica Lexie torni ad attraccare in territorio indiano.
Se di tranello si è trattato, sarebbe interessante capire come mai dall’Enrica Lexie non sia arrivato nessun segnale di allarme o di attacco pirata sventato, comportamento che ha fatto sospettare la guardia costiera indiana di una fuga verso acque lontane, con due cadaveri alle spalle.
I due sottufficiali vengono arrestati solo quattro giorni dopo, il 19 febbraio, dopo una serie di interrogatori effettuati a bordo dell’Enrica Lexie.
Inizia così l’odissea legale, con un primo procedimento penale aperto nella Corte distrettuale di Kollam al quale seguono ricorsi dell’Italia che, nel frattempo, cambia tre versioni: «Non siamo stati noi, ha sparato qualcun’altro»; «Siamo stati noi ma ci siamo confusi e comunque eravamo in acque internazionali»; «Siamo stati noi, li abbiamo scambiati per pirati, ma siamo militari in servizio, abbiamo l’immunità e inoltre eravamo in acque internazionali».
Interpellata dalla diplomazia italiana, coi fisiologici ritardi della burocrazia indiana e le pressioni del governo del Kerala, intenzionato a tenere il processo a Kollam per potersi mostrare ai propri elettori come un esecutivo forte e dalla parte del popolo, la Corte suprema indiana il 18 gennaio raggiunge un primo verdetto: dice che la giurisdizione non può essere dello stato del Kerala – la cui competenza finisce entro le 12 miglia – ma rileva un possibile concorso di giurisdizione tra Italia e India. Ordina quindi la formazione di una Corte speciale col compito di dirimere prima di tutto la questione giurisdizionale, poi quella dell’eventuale immunità funzionale – si discute se difendere una petroliera privata sia esercitare le funzioni di militare e non di contractor – e, se la giurisdizione sarà negata all’Italia assieme all’immunità dei marò, istruire un nuovo processo che veda come imputati Latorre e Girone.
La dicitura Corte speciale, in Italia, ha creato qualche incomprensione, riportando alla memoria i tribunali speciali di epoca fascista. In India invece la formazione di Corti speciali è pratica molto comune, garanzia di terzietà e autorevolezza in casi spinosi o di profondo interesse nazionale come stupri, corruzione, terrorismo.
In attesa della sentenza della Corte, che potrebbe aprire i lavori già dal 2 aprile, le ipotesi a questo punto sono tre: una condanna in India coi marò che sconteranno la pena in carceri italiane, secondo un accordo bilaterale firmato a fine dicembre tra Italia e India; lo spostamento del processo in Italia; il ricorso a un arbitrato internazionale, magari al Tribunale del mare di Amburgo.
In ogni caso di una cosa siamo certi: ai marò non sarà comminata la pena di morte. Dal 1995 a oggi i boia indiani hanno sentenziato uno stupratore, un serial killer e due terroristi (tra cui il kashmiro Afzal Guru, che forse terrorista non era). I marò non sarebbero rientrati nella categoria dei condannabili a morte. E non ci voleva alcuna lettera di rassicurazione dall’India, sarebbe bastata la conoscenza dei precedenti indiani. E un pizzico di buon senso.
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