by Sergio Segio | 31 Marzo 2013 7:49
TUNISI. Non sono mancate tensioni su Siria e sahrawi, però ora c’è una realtà «mediterranea» Tante bandiere palestinesi non si erano mai viste. Ad aprire la manifestazione era quella enorme che nei giorni scorsi aveva coperto l’edificio dell’anfiteatro della facoltà di diritto nell’università al Manar, che ha ospitato il Forum sociale mondiale.
La manifestazione per la Palestina, nel giorno della terra, partita dalla piazza 14 gennaio – come è stata ribattezzata la piazza dell’orologio dopo la rivoluzione – si è conclusa a place Pasteur, dove ha sede l’ambasciata palestinese. «Il popolo vuole una Palestina libera», lo slogan più urlato. Una manifestazione molto più militante di quella di apertura del Forum, con un ferreo servizio d’ordine del sindacato e un maggiore dispiegamento di polizia. Il corteo di apertura della cinque giorni tunisina era stato “monopolizzato” dal Fronte popolare in ricordo di Chokri Belaid, assassinato il 4 febbrario, quello di ieri ha visto una presenza massiccia dell’Unione generale dei lavoratori tunisini, che oltre a sindacato è anche un protagonista della scena politica tunisina. A salutare i manifestanti alla partenza è stato un breve e discreto passaggio di Nabil Shaat, il capo dei negoziatori palestinesi, che si trova a Tunisi in questi giorni.
La Palestina è stato il tema dominante del Forum sociale mondiale che si è concluso con l’impegno a rendere concrete le azioni finora rimaste sulla carta. Tra queste, quella di portare i crimini di Israele davanti alla Corte internazionale di giustizia, resa possibile dal riconoscimento della Palestina come osservatore all’Onu. E poi la sospensione dell’accordo di associazione UeIsraele, lo stop al commercio delle armi e il boicottaggio soprattutto della G4S, il gruppo internazionale di sicurezza impegnato in Israele per il controllo dei check point. Sono solo alcune delle azioni che dovrebbero contribuire ad affermare i diritti dei palestinesi: autodeterminazione, fine dell’occupazione israeliana, liberazione dei prigionieri, diritto al ritorno, fine del blocco di Gaza, tra gli altri. Donne indipendenti Ieri mattina nel campus del Manar le numerose bancarelle, che avevano contribuito a dare alla grande kermesse l’aspetto del suq, hanno dato il via ai saldi prima di chiudere bottega.
Queste vendite hanno permesso a gruppi di autofinanziarsi ma anche alle donne tunisine, che stanno sperimentando piccole produzioni per rendersi indipendenti, di verificare il loro appeal sul mercato. Sono diverse le ong che si sono orientate verso l’aiuto concreto alle donne che, specialmente nelle zone più povere, se non hanno una autonomia non si possono ribellare alle imposizioni e alle violenza dei maschi della famiglia, aumentati con il diffondersi dell’islamismo radicale. «È questo il miglior modo per far loro prendere coscienza dei propri diritti», sostiene Norhene Lasram di Enda, una ong che si occupa di microcredito. Dopo tre giorni in cui si sono svolti circa 1.000 seminari con la partecipazione di circa 4.000 associazioni e, secondo i tunisini, di 70.000 persone, ieri mattina si sono tratte le conclusioni nelle assemblee di convergenza.
Per la verità in queste assemblee sono stati presentati documenti che più che una riflessione approfondita sul tema erano liste di rivendicazioni o azioni da compiere. Forse non poteva che essere così: alcuni seminari sono stati molto frequentati, altri disertati, alcuni ben organizzati altri sono saltati e non solo per le difficoltà logistiche – mancanza di microfoni, di elettricità per proiezioni, di traduzione -, ma anche per disorganizzazione delle associazioni promotrici. Forse è proprio la formula che va ripensata, dopo oltre un decennio. E poi, il contesto dove si svolge il Forum dà la sua impronta. Per i molti tunisini, che si ritrovavano al campus, cantare le canzoni della rivoluzione piuttosto che ballare era un momento di libertà che non sempre si possono permettere. Il canto e il ballo sono diventate forme di resistenza ai salafiti che li vorrebbero impedire. Anche la frequentazione è cambiata con il passare dei giorni: all’inizio non« si vedevano donne con il niqab e poche erano velate, i barbuti proprio non c’erano, ma poi sono arrivati gli altri e le altre, che rivendicano la possibilità di indossare il velo integrale all’università . I salafiti hanno minacciato gli artisti, «ma noi non abbiamo accettato la provocazione, il forum doveva riuscire senza essere compromesso da atti di violenza», ci ha detto Omar Ghedamsi, pittore e segretario del sindacato degli artisti. Bandiere in fiamme Ma scontri ci sono stati.
Dopo un inizio tranquillo e, sembrava, persino foriero di nuovi dialoghi, i conflitti del mondo arabo sono esplosi: i marocchini hanno aggredito i sahrawi, le bandiere dell’Esercito libero siriano sono state bruciate e i tunisini hanno sventolato quelle della Siria di Assad sostenendo che quella siriana non è una vera rivoluzione perché la maggior parte dei combattenti sono stranieri, tra i quali molti tunisini arruolati dai salafiti. In altri casi si è trattato di scontri solo verbali. Sono nati però anche molti progetti, i cui sviluppi potranno arricchire i rapporti tra le due sponde del Mediterraneo: sull’ambiente, la migrazione, lo sviluppo, i media, etc.
Quello di Tunisi è stato un forum mediterraneo, per l’assenza o la scarsa presenza di altri protagonisti, ma in questo momento quello che poteva essere un limite ha avuto un vantaggio: ha segnato la nascita, forse persino ancora inconsapevole, di una comunità mediterranea che supera la definizione di euro-mediterranea. Questo è sicuramente un passo in avanti.
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