Un tetto agli stipendi dei manager del mondo

by Sergio Segio | 5 Marzo 2013 8:32

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È invece prevalso il buon senso di porre un freno alla follia di retribuzioni fuori controllo. In pratica, con l’approvazione del referendum, l’assemblea degli azionisti delle società  quotate ha un maggiore potere nel determinare il compenso dei massimi dirigenti e nel vietare alcuni eccessi del recente passato.
Un esempio tra tutti. Richard Fuld, nominato «executive del 2006 negli Usa» e che intasca decine di milioni di dollari all’anno, tra stipendi, stock option e gratifiche varie. Difficile continuare a sostenere che simili retribuzioni possano essere giustificate dal valore creato da tali geni della finanza, considerato che Fuld era a capo di quella Lehman Brothers sprofondata nel baratro della crisi del 2007. Al di là  di tali eccessi, il problema nelle paghe dei top manager non è unicamente il valore assoluto. Forse ancora più preoccupante il fatto che una parte sempre più elevata delle retribuzioni è in piani di stock option, ovvero in azioni della stessa impresa. Questo implica che per i dirigenti l’obiettivo centrale diventa quello di massimizzare il valore dell’azione nel breve termine. Come dire che tale pratica è un ulteriore tassello in una visione dell’impresa in cui gli interessi degli azionisti (shareholders value) sono nettamente al di sopra di quello di tutte le altre parti interessate (stakeholders value), dai lavoratori alla comunità  all’ambiente.
Un motore fondamentale della progressiva finanziarizzazione dell’economia.
Detto questo, se quindi il risultato del referendum svizzero è sicuramente positivo, paradossalmente i suoi critici centrano un argomento. Non tanto nella presunta “fuga dei cervelli”, ma nella mancanza di un coordinamento internazionale in materia di regolamentazione finanziaria. Non si va molto lontano finché ogni Paese approva delle proprie regole e normative mentre la finanza si muove liberamente su scala internazionale.
Una frammentazione delle leggi che si unisce a una situazione non di cooperazione ma di competizione tra Stati per attrarre i flussi di capitali. È su questa base che fioriscono i paradisi fiscali, nella definizione più ampia esattamente una giurisdizione che consente di eludere e non applicare una legge di un altro Paese.
La frammentazione delle normative e la competizione tra Paesi è accompagnata da una lentezza esasperante. Di fronte a una finanza che ragiona in millesimi di secondo, a distanza di sei anni dallo scoppio della crisi stiamo ancora ragionando su quali regole occorre adottare e su come disegnarle. In Svizzera, malgrado i molteplici scandali che hanno investito il settore bancario, è necessario un referendum per smuovere le acque. Analogamente negli Usa, proprio in questi giorni diverse persone e organizzazioni riunite sotto l’ombrello Occupy the Sec (la Sec è l’organo di controllo delle borse Usa) hanno deciso di fare causa a sei agenzie federali statunitensi per i ritardi nell’implementare la Volcker Rule, la normativa che prevede una separazione tra banche commerciali e banche di investimento. Una regola contenuta nel Dodd-Frank Act, la legge approvata tre anni fa dalla prima amministrazione Obama come risposta alla crisi, ma per quale ancora oggi mancano i decreti attuativi.
Negli Usa come in Svizzera sono i cittadini a cercare di fare qualcosa, di fronte a una scandalosa mancanza di volontà  o peggio a una colpevole connivenza del mondo politico. L’iniziativa viene presa cercando di esercitare un potere di “contro-lobby” sempre più fondamentale per chiudere il gigantesco casinò che ci ha trascinati nella crisi. Partendo dal basso per riportare la finanza a essere uno strumento al servizio delle persone, non il contrario come avviene oggi.

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