by Sergio Segio | 28 Marzo 2013 7:16
E per paradosso, la decisione di mandare in rete ogni parola pronunciata nel loro incontro ha irrigidito le posizioni. La trasparenza è diventata l’arma per evitare uno smottamento nel gruppo parlamentare di Beppe Grillo, scottato dalla «fuga» di qualche voto al Senato nell’elezione del presidente Piero Grasso. Sembrava una finzione di dialogo. Invece di parlarsi, gli interlocutori si rivolgevano ai rispettivi elettorati, già pensando ad un possibile scenario di voto anticipato. E poche ore dopo Vito Crimi, capogruppo grillino al Senato, ha liquidato il tentativo del segretario del Pd annunciando che se Giorgio Napolitano fa un altro nome, il M5S potrebbe essere più flessibile.
Bersani torna oggi al Quirinale per riferire al capo dello Stato se ritiene di poter tentare la formazione di un Esecutivo. L’impressione è che voglia provarci, pur avendo presenti le difficoltà . E infatti si fa anticipare da parole sferzanti sull’eventualità di un «governo del Presidente» che Napolitano potrebbe sentirsi costretto a proporre di fronte ai veti incrociati dei partiti. Segno che per la sinistra una qualsiasi subordinata a Bersani sarebbe vissuta come un arretramento e un passo ulteriore verso la fine anticipata della legislatura. Rispetto all’impostazione iniziale, però, la tattica del leader del Pd ha subìto una torsione vistosa.
Era partito puntando molte delle sue carte su una presunta disponibilità di Grillo e del suo gruppo: se non altro perché è proprio a quel movimento che alla fine il partito ha ceduto una percentuale dei suoi consensi. E invece, si è dovuto rassegnare ad una strategia del rifiuto che non prevede aperture di credito a nessuno; e punta invece ad un’accelerazione della crisi del sistema, tentando di spingere il Pd ad un compromesso governativo con il Pdl. Per quanto si tratti di un esito che ha sostenitori trasversali, seppure in modo contorto e pasticciato, le probabilità che si verifichi rimangono esigue. Il rischio di una marcia inesorabile verso le urne non va esclusa. I berlusconiani additano quel traguardo come inevitabile, se Bersani getta la spugna. Sono infatti convinti che i sondaggi, le divisioni nella sinistra e la crisi di identità della lista di Mario Monti, lavorino per loro.
Alcune frasi del capo leghista Roberto Maroni sono state interpretate come una cauta disponibilità a discutere. Ma il Carroccio non ha la forza di assumere una posizione indipendente e men che meno conflittuale rispetto al Pdl. Fra l’esito dell’incarico al leader del Pd e un’eventuale precipizio, comunque, c’è di mezzo la scelta del nuovo presidente della Repubblica. E sul successore di Napolitano i giochi promettono di rivelarsi più pesanti e imprevedibili di qualunque ambizione di rivincita elettorale. Il vero discrimine fra Bersani e Silvio Berlusconi è proprio la figura del prossimo capo dello Stato. Il Pdl gioca pesante nel chiedere per il Quirinale qualcuno che garantisca il Cavaliere. E subordina un eventuale appoggio proprio a una trattativa serrata e stringente su questo punto.
Ma il Pd non sembra in grado, né vuole offrire assicurazioni di questo tipo. Il settennato presidenziale conta molto di più di palazzo Chigi, per le implicazioni strategiche che ha. Il risultato è che all’incognita sulla via d’uscita dalla crisi del governo si aggiunge quella sul capo dello Stato. Con la prospettiva palpabile di un conflitto istituzionale. Quando il segretario del Pdl, Angelino Alfano, chiede a Bersani di rovesciare la sua impostazione, dà voce a un Berlusconi convinto di essere più forte politicamente; e pronto a passare ad una fase successiva ancora tutta da decifrare e inventare. «La vicenda è chiusa e l’ha chiusa Bersani che ora si trova nel vicolo cieco in cui si è infilato», accusa Alfano. «Sta a lui, ora, rovesciare la situazione, se vuole e se può, nell’interesse del Paese». Sa di aut aut, e tenta di rimandare all’avversario la responsabilità di una rottura. A meno che Napolitano non riesca a indicare un’alternativa all’impotenza dei partiti.
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