Trattativa Stato-mafia, a giudizio i boss e i politici
PALERMO — Alla fine dell’udienza preliminare Massimo Ciancimino si avvicina al pubblico ministero Nino Di Matteo, gli tende la mano per salutarlo e dice: «Complimenti». È stato appena rinviato a giudizio per concorso in associazione mafiosa e calunnia, ma il figlio dell’ex sindaco corleonese di Palermo parla senza ironia. Il pm gli stringe la mano, fa un cenno col capo e tira dritto. Non s’era mai visto un imputato mandato alla sbarra che si congratula col suo accusatore, ma il processo sulla presunta trattativa fra lo Stato e la mafia al tempo delle stragi contempla anche questa scena inedita.
Il giudice Piergiorgio Morosini ha deciso che i rappresentanti delle istituzioni e di Cosa nostra ai quali è contestata la «violenza o minaccia a un Corpo politico» dovranno presentarsi davanti alla Corte d’assise di Palermo il prossimo 27 maggio. Sono i mafiosi Totò Riina, Leoluca Bagarella, Antonino Cinà e Giovanni Brusca; gli ex ufficiali dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno; l’ormai ex senatore berlusconiano Marcello Dell’Utri. Al loro fianco compariranno anche l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino, accusato di falsa testimonianza, e — per l’appunto — Massimo Ciancimino. Le posizioni di altri due imputati, l’ex ministro democristiano Calogero Mannino e il boss Bernardo Provenzano, sono state stralciate: il primo sarà giudicato con il rito abbreviato, il secondo è al momento incapace di partecipare al dibattimento a causa delle gravi condizioni di salute.
Per i pubblici ministeri del pool guidato fino a pochi mesi fa dall’ex procuratore aggiunto Antonio Ingroia, ora alla guida del movimento politico Rivoluzione civile appena sconfitto alle elezioni, si tratta di un successo che Vittorio Teresi (l’aggiunto che ha sostituto Ingroia al coordinamento del pool) celebra con malcelata soddisfazione: «Molti adesso si dovranno vergognare e chiedere scusa». Il riferimento è alle polemiche che hanno attraversato il mondo politico ma anche quello giudiziario. Oltre ai rappresentanti dei partiti infatti (quasi tutti, a parte quelli schieratisi con Ingroia), molti magistrati hanno manifestato riserve e perplessità sull’azione dei pm palermitani. Soprattutto negli ultimi mesi, dopo la vicenda delle intercettazioni in cui è rimasto coinvolto il Quirinale, risoltasi nel conflitto davanti alla Corte costituzionale che ha dato ragione al presidente della Repubblica e censurato il comportamento degli inquirenti.
«La decisione di un giudice terzo particolarmente preparato e rigoroso è la riprova che molte critiche erano preconcette e, a volte, in malafede», commenta Di Matteo con una punta d’orgoglio. Ma nel decreto con cui ha disposto il processo Morosini non ha risparmiato un accenno critico al lavoro della Procura, che nelle sue richieste non ha «neppure affrontato il tema delle fonti di prova, limitandosi a generiche affermazioni su finalità e approdi dell’inchiesta». Per questo ha impiegato ben 34 pagine per evidenziare gli elementi a carico degli imputati. Sottolineando che sono «destinati al vaglio dibattimentale sulla ricostruzione dei passaggi fattuali e sull’attendibilità delle stesse». Come dire che il suo non è un verdetto di condanna, bensì il rinvio ad altri giudici, davanti ai quali dovrà svolgersi il «contraddittorio tra le parti».
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