SCETTICISMO DIGITALE
«Quando il tuo cuore smetterà di pulsare, tu continuerai a twittare » è lo slogan rassicurante che accoglie i visitatori del sito web di LivesOn, un servizio di prossimo lancio che promette di twittare per conto degli utenti anche dopo la loro morte. Analizzando i tweet pregressi il servizio imparerà a conoscere “le tue preferenze, i tuoi gusti, la tua sintassi” così da personalizzare i testi dall’aldilà composti in automatico.
Può essere che LivesOn si riveli poi una presa in giro o che per una qualche ragione faccia cilecca, ma come idea evidenzia quella che è oggi l’ideologia dominante della Silicon Valley: tutto ciò che può essere superato va superato – persino la morte.
Barriere e redini – qualunque cosa imponga limiti artificiali alla condizione umana – viene eliminato con particolare entusiasmo. La Superhuman, un’altra misteriosa start-up che non stonerebbe in un programma comico, promette, stando alle recenti affermazioni di uno dei suoi fondatori, un servizio non ben specificato che “aiuta a diventare superuomini” . Beh, almeno hanno avuto il buon gusto di non chiamarlo àœbermensch.
I dibattiti recenti sulle rivoluzioni di Twitter, o sull’impatto di internet sulla cognizione, in genere non si sono soffermati sulla scelta da parte dei guru tecnofili e futuristi della Silicon Valley di mettersi alla ricerca della patch suprema per correggere i maligni bug dell’umanità . Se ci sapranno fare nessuna imperfezione individuale resterà impunita – in teoria la tecnologia renderà obsolete quelle imperfezioni.
Il mese scorso Randi Zuckerberg, ex direttore marketing di Facebook, si è entusiasmato per una applicazione che permette “il crowdsourcing di qualunque vostra decisione”. Chiamata Seesaw, altalena, l’app consente di condurre sondaggi istantanei nella cerchia di amici per chiedere consiglio su qualunque cosa: dalla scelta dell’abito da sposa, al tipo di bevanda da ordinare al bar e presto, forse, al candidato da votare alle elezioni. Seesaw offre un approccio nuovo e interessante al giudizio altrui e all’insuccesso. I rischi di bocciatura sono ridotti al minimo. Sappiamo con largo anticipo quanti “mi piace” totalizzerà su Facebook ogni nostra decisione.
Jean-Paul Sartre, il filosofo esistenzialista che celebrò l’angoscia di fronte alla scelta come segno di responsabilità , non trova posto nella Silicon Valley. Le decisioni, pur contribuendo alla nostra maturità di esseri umani, sono fonte di sofferenza, e di fronte alla scelta tra maturità e minimizzazione del dolore, la Silicon Valley ha optato per quest’ultima – forse a seguito dell’ennesimo sondaggio istantaneo. Nel suo straordinario saggio Elogio dell’incoerenza, il filosofo polacco Leszek Kolakowski sostenne che, trovandoci regolarmente davanti a scelte egualmente valide che esigono una dolorosa riflessione etica, essere incoerenti è l’unico modo per evitare di diventare ideologi dottrinari, fedeli ad un algoritmo. Per Kolakowski, la coerenza assoluta equivale al fanatismo. «La progenie degli esitanti e dei deboli … di coloro … che credono nella sincerità ma invece di dire ad un esimio pittore che è un imbrattatele lo elogiano educatamente», scrisse, «questa progenie degli incoerenti resta una delle grandi speranze per la sopravvivenza della razza umana».
Tutti questi tentativi di alleviare i tormenti dell’esistenza potrebbero sembrare paradisiaci per la Silicon Valley. Ma per il resto di noi saranno un inferno. Sono mossi da un’ideologia invasiva e pericolosa che io chiamo “soluzionismo”: una patologia intellettuale che riconosce i problemi come tali in base ad un unico criterio: l’essere “risolvibili” con una soluzione tecnologica bell’e pronta. Così la smemoratezza e l’incoerenza diventano “problemi” semplicemente perché abbiamo gli strumenti per liberarcene – e non perché ne abbiamo soppesato i pro e i contro.
I soluzionisti non si limitano a risolvere i problemi degli individui, sono altrettanto ansiosi di risolvere i problemi delle istituzioni. Una start-up “civica” come Ruck.us, che aiuta le persone a creare movimenti politici e ad aderirvi, cerca di bypassare il sistema convenzionale dei partiti e consente agli individui di far politica senza alcuna mediazione da parte delle istituzioni, basandosi sull’assunto che la democrazia rappresentativa è servita in passato solo perché i costi della comunicazione erano troppo elevati. Ora che le tecnologie digitali hanno ridotto i costi della partecipazione, i partiti politici possono seguire la sorte del dodo ed essere sostituiti ad hoc da gruppi online di cittadini impegnati.
È arduo difendere l’attuale sistema politico americano ma è ancor più arduo schierarsi a favore del progetto soluzionista per un semplice motivo: la “soluzione”
supportata da internet che viene proposta non ci viene venduta in base ai suoi meriti intrinseci – dei quali ci vien detto ben poco – ma piuttosto sui demeriti del sistema esistente, siano essi faziosità o malcostume. È vero, il sistema attuale è zeppo di imperfezioni, ma l’imperfezione potrebbe essere il prezzo da pagare per una democrazia semifunzionante. Dopo tutto c’è poca faziosità in Corea del Nord. I soluzionisti sbagliano nel momento in cui danno per scontati i problemi che si propongono di risolvere, invece di studiarli. Brandendo i martelli digitali della Silicon Valley, tutti i problemi iniziano a sembrare chiodi e tutte le soluzioni applicazioni. Questa tendenza maschera il fatto che non tutti i problemi sono tali e che quelli che si dimostrano veri problemi potrebbero esigere risposte istituzionali di lungo respiro, non rapide soluzioni tecnologiche prodotte negli “hackathon”, le maratone informatiche, né video virali per indurre troppo tardi i signori della guerra ugandesi ad arrendersi.
La Silicon Valley, strano a dirsi, ama fregiarsi del suo “soluzionismo”. Le sue imprese di maggior successo si modellano come equivalenti digitali di Greenpeace e Human Rights Watch, non di Wal-Mart o della Exxon Mobil. «In futuro», dice Eric Schmidt, Ceo di Google, «la gente passerà meno tempo a cercare di far funzionare la tecnologia… se riusciremo in questo credo saremo in grado di risolvere tutti i problemi del mondo».
Questo umanitarismo digitale punta a generare buona volontà all’esterno e sostiene il morale all’interno. Dopo tutto per salvare il mondo potrebbe valere la pena di pagare come prezzo la distruzione della privacy di ciascuno, mentre una missione ingigantita potrebbe convincere dipendenti giovani e idealisti che non stanno sprecando la vita a ingannare consumatori ingenui inducendoli a cliccare sulle pubblicità di prodotti inutili. La Silicon Valley e Wall Street sono in competizione per lo stesso bacino di talenti e rivendicando il compito di risolvere i problemi del mondo, le società di tecnologia possono offrire qualcosa che Wall Street non può offrire: l’idea di missione sociale.
L’ideologia del soluzionisimo è essenziale per contribuire a mantenere l’immagine della Silicon Valley. La stampa tecnologica è ben lieta di enfatizzare qualunque iniziativa soluzionista. “Africa? Ecco la app giusta”, titola davvero così il sito web dell’edizione Britannica di Wired.
C’è nessuno che può prestarla alla World Bank, per favore?
Ogni volta che le imprese tecnologiche lamentano che il nostro mondo in frantumi va aggiustato, dovremmo immediatamente chiederci: come facciamo a sapere se è rotto esattamente come dice la Silicon Valley? E se i tecnici si sbagliassero e fossero proprio la frustrazione, l’incoerenza , la smemoratezza, forse addirittura la faziosità le caratteristiche che ci consentono di trasformarci (in dissolvenza) nei complessi attori sociali che siamo?
«Mi auguro che gli ingegneri capiscano che per essere un ingegnere non basta essere ingegnere», scrisse il filosofo spagnolo José Ortega y Gasset nel 1939. Dato il peso politico e culturale della Silicon Valley – dall’istruzione all’editoria, dalla musica ai trasporti – è un consiglio che vale particolarmente la pena di seguire. Chiedete ai
vostri amici su Seesaw.
Traduzione di Emilia Benghi © New York Times
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