Resistenza femminile, un filo rosso globale

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«Si voltò di scatto, in preda al panico. Una sirena della polizia aveva squarciato all’improvviso la calma apparente di quella domenica pomeriggio (…) Alle loro spalle, sbucati fuori chissà  da dove, c’erano quattro uomini in abiti civili e inequivocabili sembianze da poliziotti. Poi fu solo il buio. La prima pallottola la raggiunse al volto e la fece cadere a terra. Poi altri colpi la raggiunsero alla schiena, finendola». Inizia così una delle dieci microstorie incluse nell’ultimo libro di Riccardo Michelucci, L’eredità  di Antigone. Storie di donne martiri per la libertà  (Odoya edizioni, pp. 278, euro 18, con prefazione di Emma Bonino). Il testo riporta alla luce, con accorta sapienza narrativa, le esistenze di donne coraggiose, per lo più dimenticate o riposte all’ombra della Storia ufficiale, nonostante il loro grande contributo nelle lotte per la libertà  nei diversi paesi di provenienza. 
Sono vite, quelle raccontate nel libro, tutte unite dal filo rosso della resistenza. La vicenda di cui sopra riguarda Mairéad Farrell, socialista e volontaria dell’Ira, già  prigioniera politica nel carcere femminile di Armagh, in Irlanda del Nord. Nota in patria e all’estero per aver partecipato alla dirty protest e poi a uno sciopero della fame – forme di lotta parallele a quelle di Bobby Sands e compagni, nel non troppo lontano carcere di Long Kesh – Farrell venne freddata alle spalle a Gibilterra, all’età  di trentuno anni nel 1981, da agenti delle teste di cuoio inglesi inviati per dare una «lezione esemplare» all’indomito Esercito Repubblicano Irlandese. Mairéad, insieme a Seà¡n Savage e Daniel McCann, giustiziati nella stessa occasione, stava tentando di organizzare un attentato contro il Royal Anglian Regiment. 
La storia di Farrell è solo una delle tante biografie esemplari del testo. Tra queste spicca quella di Norma Parenti, la cui memoria è ancora vivissima a Massa Marittima e nel grossetano, ma si perde e svanisce una volta solcati i confini della Toscana. Norma Parenti, partigiana, madre e moglie, figlia di un muratore e di una casalinga, diviene una staffetta per il raggruppamento «Amiata» della III Brigada Garibaldi, trasportando armi e viveri che spesso nasconde sotto la carrozzina del proprio bambino. La sua fine ultima ed eroica è avvolta nel mistero, essendo stata uccisa dai nazifascisti poche ore prima dell’arrivo degli Alleati, senza testimoni oculari. La storia di Norma, medaglia d’oro al valor militare alla memoria, viene tratteggiata a tinte vividissime, e ancora una volta, a ritroso. 
L’andamento di questo affascinante libro di storie minime è infatti scandito dal ritmo intenso di una narrazione che dalla fine rincorre il proprio inizio. Le vicende di Norma Parenti sono inaugurate dalla rievocazione di un evento chiave e simbolico, prossimo alla sua morte: siamo a Massa Marittima, è il 9 maggio del 1944. Il cadavere sfregiato del partigiano «Boscaglia», al secolo Guido Radi, è stato abbandonato in piazza del Duomo dai nazifascisti. È fatto divieto a chiunque di tumularne la salma nel cimitero comunale, eppure Norma – come Antigone di fronte un’autorità  che non rispetta le leggi della natura – la consegna alla terra alla presenza dei familiari di Radi. Il gesto, insieme a tanti altri atti di sfida, le varrà  la futura condanna a morte. 
Similmente viene presentata la fugace esistenza di Sophie Scholl, del gruppo giovanile della Rosa Bianca – forse la più nota tra le tante donne martiri del libro, per via di un famoso film, dal titolo La Rosa Bianca, candidato all’Oscar. Sophie fu condannata a morte nel 1943 insieme al fratello Hans e a Christoph Probst, per aver istigato il popolo tedesco alla disobbedienza nei confronti dell’egemonia nazista. Un’altra storia esemplare è quella di Marianella Garcà­a Villas, torturata e uccisa nel 1983 nella scuola militare di San Salvador dalle spietate forze di polizia del regime di El Salvador. Marianella, molto vicina al Monsignor Romero – freddato da un sicario durante la celebrazione di una messa nel marzo del 1980 – ne aveva seguito l’esempio, portando nella sua comunità  e all’estero, persino in Italia, la propria testimonianza delle efferatezze compiute dai militari nel proprio paese, con la palese connivenza degli Stati Uniti d’America. 
Da un punto di vista eminentemente stilistico, il metodo narrativo del libro ricorda quello che in critica letteraria è noto come New Historicism, con l’uso sapiente di aneddoto iniziale da cui poi si dipana l’analisi. Tornando più indietro nel tempo, ma sempre in ambito letterario, non è peregrina l’ipotesi di una certa affinità  con i Portraits in Miniature di Lytton Strachey, nonostante l’evidente divario in termini di tensione politica e morale. Un simile uso in ambito storiografico, invece, delle potenzialità  narrative di minime storie eroiche, lo ritroviamo in libro recente dal titolo Voci dalla resistenza, a cura di Andrea Comincini, con prefazione di Salvatore Cingari (Aracne, pp. 168, euro 11). 
Il testo di Michelucci, mosso da un ingiusto oscuramento nell’immaginario collettivo e sociale di figure femminili attive in vari contesti di resistenza, intende non solo rendere omaggio a personaggi le cui storie sono spesso dimenticate, ma si pone un obbiettivo più specifico: restituire loro una collocazione adeguata nel pantheon di una Storia che le ha immancabilmente relegate a posizioni del tutto marginali. La rievocazione del sacrificio di donne coraggiose e pronte ad opporsi all’ingiustizia fino alla morte ha quindi un valore non agiografico, di exempla da ammirare, ma politico nel senso più nobile del termine. 
Le loro esistenze sono ingranaggi di un meccanismo che, spesso in senso rivoluzionario, ha portato a cambiamenti radicali in quelle società  che per breve tempo le hanno ospitate. Evocando con forza e intensità  narrativa delle storie dimenticate, il merito di questo libro è di presentarcele in quanto tasselli imprescindibili nella ricomposizione del mosaico ideale delle nostre coscienze.


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