Quel rifiuto del discorso scritto da altri

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E dietro questo rifiuto che fonti vaticane confermano ufficiosamente, prende corpo, frammento dopo frammento, in una miscela di verità  e di voci, un dopo-Conclave gravido di altre sorprese: anche perché stanno rapidamente emergendo la portata e le incognite legate al primo pontificato globale, dopo quello di un Giovanni Paolo II figlio e vincitore della Guerra Fredda; e dopo l’impossibile riflesso eurocentrico di Benedetto XVI. I «no» di Francesco alle abitudini del passato diventano, su questo sfondo, indizi di una nuova identità  da inventare; e l’archiviazione obbligatoria dei residui di quella passata.
Il timore di una «strategia della tabula rasa» contro la Curia va letta dunque non nella chiave di una «punizione» ma di un’evoluzione inevitabile e irreversibile. Nasce dalla volontà  disperata della maggioranza del Conclave, affidata all’ex arcivescovo gesuita di Buenos Aires, di riplasmare il governo vaticano; di renderlo più aderente a quello che il cattolicesimo una volta definito «periferico», e ora strategico, chiede a Roma. Al punto che qualcuno prevede: «Il problema non sarà  quello di fare agire il Pontefice, ma di frenarlo». Le sue parole nei confronti del «papa emerito» Benedetto XVI continuano ad essere bellissime, rispettose, affettuose, di «imperitura riconoscenza». Ma questo non significa, pare di capire, che Jorge Mario Bergoglio defletterà  da una linea totalmente innovativa rispetto a Joseph Ratzinger. A imporglielo sono il contesto mutato e una crisi drammatica della Chiesa e del Vaticano.
«Segretario di Stato, Prefetto della Casa Pontificia, Cerimoniere delle liturgie: da queste tre nomine si capirà  dove Francesco vuole portare la Chiesa», spiegava ieri un alto prelato non italiano. Faceva intendere implicitamente che tre caselle sono destinate a cambiare in un qualche momento dopo Pasqua: quella occupata da Tarcisio Bertone, quella riempita da pochi mesi da don Georg Gà¤nswein, segretario particolare di Benedetto XVI, e l’altra di monsignor Guido Marini. La strada appare segnata, anche se dalla cerchia di due delle «eminenze» additate come i vertici del «partito romano», cioè Bertone e il decano del Collegio cardinalizio, Angelo Sodano, è stata fatta filtrare la notizia che il loro voto in Conclave è andato a Bergoglio in opposizione ad Angelo Scola. Con una punta di malizia gli avversari dei due ex segretari di Stato vaticani spiegano che le loro schede sono state aggiuntive, non decisive. E comunque, il mandato che Francesco si è dato non è di scendere a compromessi.
A conferma di una scelta forse in incubazione da giorni, e maturata prima ancora che i 115 «grandi elettori» si chiudessero nella Cappella Sistina, arriva una voce dagli Stati Uniti: quella di un incontro di lunedì 11 marzo a Washington. Il nunzio papale, Carlo Maria Viganò, ha ricevuto i vertici della «CALL», acronimo della Catholic Association of Latino Leaders, un’organizzazione caritativa che rappresenta circa cinquanta milioni di americani di lingua spagnola. E dopo avere ascoltato le loro domande e le loro previsioni sui «papabili» si sarebbe limitato a dire: comunque vada, mercoledì sera avremo il nuovo Papa. Viganò «indovinava» i tempi, se non l’esito, grazie alle notizie che riceveva dai suoi interlocutori statunitensi a Roma? Certo sapeva più di una Cei che dava per scontata l’elezione di Scola: al punto da avere preparato il comunicato di congratulazioni con il nome dell’arcivescovo di Milano, e da diffonderlo per sbaglio anche dopo la notizia che si trattava di Bergoglio.
Dal modo gioioso in cui la pattuglia guidata da Timothy Dolan, arcivescovo di New York, ha salutato Francesco dopo l’elezione, si è capito che i cardinali delle Americhe sono stati fra i registi più accorti e decisi del Conclave. E l’esito è un’operazione che smonta vecchi gesti, parole, logiche, quasi appartenessero a una «lingua morta»; e li assembla e li combina in modo nuovo, ridimensionando di fatto il peso della Curia e le sue dinamiche; e riequilibrando la presenza e il potere degli «italiani», sovrarappresentati e mal visti per avere alimentato, questa è l’accusa, divisioni e scandali. Non c’è solo il dettaglio di un Bergoglio che finora non ha mai chiamato «eminentissimi» i cardinali, come accadeva prima, ma solo «fratelli». Nè gli strappi al rituale del vestiario e degli spostamenti con i simboli più appariscenti e ultimamente contestati del potere pontificio. Qualcuno ha notato una punta di disagio nel nuovo papa perfino quando ieri ha rotto i sigilli dell’Appartamento.
È quello che tutti scrivono con la «a» maiuscola perché ci abitava Benedetto XVI, e che era rimasto chiuso dalle dimissioni del 28 febbraio scorso. Chi ha ritenuto, a torto o a ragione, di cogliere un’ombra nei primi sguardi del nuovo Pontefice all’Appartamento, non l’ha attribuita al fatto che proprio da quelle stanze sono stati fatti uscire molti dei documenti di Vatileaks, fotocopiati e portati via illegalmente dal maggiordomo Paolo Gabriele. Piuttosto, era come se agli occhi di una persona che non nasconde l’inclinazione alla frugalità , come Francesco, la casa sembrasse troppo grande: troppo «papale». Qualcuno arriva a scommettere che non sarebbe sorprendente se alla fine optasse per un appartamento più piccolo, scelto fra quelli al piano sopra.
Ma forse, questo fa parte della retorica che accompagna l’arrivo di ogni pontefice: un culto della personalità  in parte fisiologico, perché dopo un trauma come la rinuncia di Benedetto XVI c’e bisogno di sottolineare la novità  e perfino di esagerarla; in parte rischioso, perché alimentare attese di cambiamento epocali può trasformare le speranze in delusioni, quando le difficoltà  e le resistenze si rivelano forti quanto la volontà  di chi è stato eletto col compito di abbatterle. Per paradosso, Francesco ha il vantaggio dell’età . Avere quasi 77 anni gli permette di essere un pontefice non di transizione ma della transizione, nel senso meno banale del termine: è colui che deve promuoverla, provocarla, e fin dove gli sarà  possibile guidarla. Più si andrà  avanti, più sarà  chiara una posta in gioco che rimette in discussione tutto, tranne i principi fondamentali sui quali si basa la dottrina della Chiesa cattolica. Per questo sarà  un processo doloroso, punteggiato da altri «no».


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