Quel mare d’acqua che mangiamo

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Una grande abbuffata è un’indigestione d’acqua. Più che verde, stavolta serve il pollice azzurro. Perché nel cibo che mangiamo c’è acqua. Un mare d’acqua virtuale. Racchiusa in un piatto di spaghetti o in un hamburger, bevuta inconsciamente come una tazzina di caffè. Ingerita senza neanche berla, ma è stata necessaria a produrre quello che stiamo mangiando. Basta un dato per capirne le proporzioni. L’acqua che utilizziamo ogni giorno per uso domestico, quella che vediamo scorrere dai rubinetti, è pari a 157 litri. Ne mangiamo invece 3500. Il 90 per cento dell’acqua che usiamo è nascosta dietro al cibo. «In Italia c’era un buco informativo profondissimo, per questo tornando qui dopo un’esperienza di ricerca a Londra abbiamo deciso di portarci dietro qualcosa che potesse essere utile per il nostro paese», racconta Francesca Greco, 35 anni. Nata a Orvieto, ha conosciuto Marta Antonelli, 28 anni, prima come compagna di studi a Londra poi di penna dopo un caffè bevuto al Caffè Torretta di Roma. «All’estero si parla di acqua virtuale da una quindicina d’anni: le istituzioni, le casalinghe che fanno la spesa, ma soprattutto le multinazionali che ormai lavorano per abbattere gli sprechi dei loro processi produttivi», spiega Greco.
In Olanda, in Inghilterra e in generale nei paesi nordici hanno mappato i loro cibi per spiegare l’impatto liquido di ogni boccone ingerito. La sensazione è che l’ondata green che ha mosso coscienze anche in Italia si limiti allo spreco tangibile. Spegnere una luce inutilizzata, usare un’auto elettrica, accorciare i tempi di una doccia, magari chiudendo il rubinetto mentre ci si insapona.
Ma l’acqua virtuale è invisibile. Per questo molti non fanno nemmeno in tempo a sentirsi in colpa quando si siedono a tavola. In questo senso un vegetariano può avere la coscienza più pulita. La sua cena tipo «costa» 1500 litri d’acqua: 4100 litri quella di chi ha una dieta carnivora. La carne, soprattutto quella rossa di animali allevati in modo intensivo, ha il maggior impatto. Meno idro-esigente è il pollame. Per questo sono utili gli sforzi di movimenti come Slow Food che tutelano l’identità  territoriale, la tendenza crescente a valorizzare i cibi a chilometro zero. «Per limitare il mio impatto nella vita reale, mangio carne solo due volte a settimana e la compro in un posto fidato vicino a Viterbo, accorciando la distanza tra la mia tavola e chi produce», spiega Antonelli.
L’unico modo per raddrizzare una situazione che, stante la crisi idrica del pianeta e il costante aumento demografico, può solo peggiorare, è riappropriarsi del valore dell’acqua. A Bali, ad esempio, dove l’acqua per via delle piogge a cascata non manca, con il sistema dei Subak per irrigare il riso il rispetto dell’acqua è diventato qualcosa di sociale e religioso. «Si migliora facendone un uso consapevole, perché non tutta l’acqua è uguale — spiega Greco —. Tony Allan, ideatore del concetto di “virtuale”, la chiama desocializzazione: il rapporto con l’acqua va ripensato, cercando di utilizzare per produrre alimenti soprattutto l’acqua verde, quella da fonte piovana o l’acqua blu, comunque rinnovabile, da laghi, fiumi, falde sotterranee». Sfatato quindi il (falso) mito che due gocce d’acqua siano per forza uguali, vien da chiedersi a chi andrebbe inoltrata una preghiera. Più al governo o a un bambino da educare a consumi intelligenti? I concetti non sono difficili: chi si occupa di agricoltura li conosce da sempre. Con la politica si può gestire l’acqua pubblica, quella poi utilizzata nelle case. In tal senso le campagne di sensibilizzazione, oltre che il referendum sull’acqua, hanno smosso le coscienze, ma quella per uso domestico resta una battaglia di una guerra più grande. «Sforzi maggiori andrebbero fatti dalle multinazionali, aggiungendo sull’etichetta l’impronta idrica come avviene per grassi e proteine», dice Antonelli. Alcune aziende italiane, come Barilla per la pasta e Mutti per le conserve di pomodoro, l’hanno fatto.
L’Italia è il terzo importatore al mondo di acqua virtuale. «Fa parte del nostro stile di vita poco olistico: non siamo padroni di quello che mangiamo», spiega Greco. La sfida sta quindi nel migliorare la qualità  dell’acqua che consumiamo. Perché mangiando l’acqua degli altri rischiamo di creare povertà  senza saperlo. «Per esempio se importiamo quella di beduini che nel deserto non hanno acqua rinnovabile», dice Greco che confessa di essere scappata dall’Italia perché è l’unico paese dove non esiste una cattedra di politiche idriche in nessuna università  e manca un ministro dell’Acqua. In Africa, una piscina naturale che per povertà  strutturale non riesce a sfruttarla, ogni paese ne ha uno.
«Abbiamo scritto il libro in due mesi, di slancio, raccogliendo informazioni e contributi per portare qui quello che all’estero è noto e rispettato — concludono le due ricercatrici —. Sarebbe bello diventasse una piattaforma per aprire un dibattito che eviti che questo Paese fra vent’anni sia molto meno liquido».


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. Il disastro urbano che ciascuno può constatare, è il risultato di logiche che sfuggono palesemente agli architetti e agli urbanisti. Tuttavia questi ne sono stati i complici e al medesimo tempo hanno cercato di porrvi rimedio. Ma l’architettura ecoresponsabile [o l’habitat bioclimatico] non è la soluzione, al meglio costituisce un elemento ipotetico della soluzione.

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