Quei sospetti sulle fughe di notizie il «Partito romano» e i suoi nemici
L’ombra dei «corvi» si è allungata di nuovo, a sorpresa, anche sulla vigilia del Conclave che comincia oggi pomeriggio. È spuntata ieri mattina, dopo che il segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone, ha concluso la sua relazione abile, ma ugualmente contestata, sullo Ior, la «banca del Vaticano». Bertone si è lamentato perché aveva visto sui giornali il resoconto dell’intervento svolto da Braz de Aviz, brasiliano, in una delle riunioni preparatorie di questi giorni: le congregazioni generali. Di più: ha larvatamente accusato il cardinale sudamericano di averlo passato alla stampa. Ma Braz de Aviz ha chiesto la parola. Ha spiegato di avere parlato a braccio. Ed ha denunciato fra applausi liberatori l’esistenza di «qualcuno» che registra le riunioni e ne rivela il contenuto per filo e per segno. In quei battimani si sono ritrovati in molti: a cominciare dagli statunitensi, che da giorni apparivano stupiti, quasi intimiditi dal modo in cui ogni parola diventava un prolungamento inopinato di Vatileaks.
Subito si è pensato a chi potesse avere diffuso quegli interventi; e soprattutto, perché. Uno dei novanta «assistenti» scelti dalla segreteria di Stato per aiutare i grandi elettori? Addirittura qualche cardinale? Difficile a dirsi; e impossibile da verificare a poche ore dall’apertura del Conclave. C’è solo da sperare che queste polemiche in extremis servano a scaricare le tensioni e il nervosismo accumulatisi in mesi; e che da oggi la clausura fra la residenza di Santa Marta e la Cappella Sistina, dove si voterà per eleggere il Pontefice, permettano di recuperare serenità e lucidità . Ma quanto è accaduto ieri rende ancora più acuta la consapevolezza che si arrivi a riforme profonde; e conferma l’incertezza che sovrasta la successione a Benedetto XVI. «Sarà un Conclave aperto. E imprevedibile». Un cardinale ha scolpito la profezia mentre scorreva sugli schermi televisivi il «borsino» dei candidati al papato.
Può darsi che alla fine uno di loro diventi davvero Pontefice. Ma rispetto al 2005, anno dell’elezione di Benedetto XVI, non si vedono né maggioranze precostituite, né blocchi di voti in formazione. Si scommette sulla rapidità se non altro perché, a partire da domani, ci saranno quattro votazioni al giorno. Ma sembra un auspicio, non solo una previsione. Non a caso, quando è stato chiesto ad uno dei 115 «grandi elettori» su chi puntasse, ha risposto candidamente che aveva in testa una quindicina di nomi: cioè tutti e nessuno. Ma soprattutto, nei giorni scorsi è emersa la tesi del «tandem»: l’idea di riempire la casella numero uno, abbinata a quella del segretario di Stato. Un’anomalia, perché confermerebbe implicitamente sia la desacralizzazione del profilo pontificale, quasi si trattasse di un banale «ticket» di governo; sia il tentativo di condizionarne in modo preventivo le scelte; sia l’esigenza di bilanciare un’eventuale figura di rottura con qualcuno che materializzi un compromesso accettabile alla maggioranza dei porporati: in particolare quelli refrattari a riforme radicali.
Sono indizi di una scelta difficile e tormentata, nella quale è impossibile dare per scontato un esito. Ma che trascura un punto di partenza ineludibile: la controversa rinuncia di Joseph Ratzinger. Col passare dei giorni, nessuno attribuisce più il suo passo indietro soltanto a motivi di salute, sebbene questa rimanga la spiegazione ufficiale e unica. E dietro il rispetto per un gesto sconvolgente per il profilo plurisecolare del papato, si indovina la voglia di archiviare una stagione. I malumori per le fotografie che hanno sorpreso il «Pontefice emerito» a passeggio nei giardini di Castel Gandolfo insieme al segretario particolare monsignor Georg emergono anonimamente, ma in modo univoco; e non solo contro i fotografi che hanno «rubato» le istantanee, sebbene i più comprensivi concedano l’attenuante di una situazione inedita con la quale il Papa dimissionario deve fare i conti. E sull’influenza che Ratzinger potrà esercitare sul Conclave e sul successore, i giudizi sono ancora più incerti: anche per il ruolo di monsignor Georg, prefetto della Casa pontificia e dunque uomo di collegamento istituzionale col nuovo Papa.
Il problema di pilotare una transizione in una delle fasi più delicate della storia contemporanea della Chiesa finisce per far convivere progetti di palingenesi e resistenze sorde. Su questo sfondo, la nazionalità promette di rivelarsi un falso problema; anzi, di diventare fuorviante. È indubbio che «gli italiani» vengono osservati come un partito sovrarappresentato e destinatario di molti sospetti. Un nordamericano li definiva «the dagger and poison lobby», il gruppo che agisce «col pugnale e col veleno». Non sono stati d’aiuto i conflitti fra segretario di Stato e Cei, lo scandalo Vatileaks, le guerre di potere intorno allo Ior e le commistioni con la politica. Ma nella definizione si coglie una vena spessa di pregiudizio, e anche un certo semplicismo. Scavando un po’, si intuisce che quando si allude all’italianità , il riferimento negativo è soprattutto all’appartenenza curiale. È come se gran parte dei mali della Chiesa fossero riferiti alla Roma papalina: ai riti, alle beghe, alle stanze popolate da «corvi» senza scrupoli capaci di far filtrare notizie alla stampa additata come «manipolatrice».
Anche sulle responsabilità del maggiordomo Paolo Gabriele pochi sono disposti a sostenere la tesi del malfattore isolato. Per questo, dall’idea del Conclave in cui ci si confronta in base all’appartenenza geografica, si passa ad una distinzione più sottile e più trasversale: quella fra il cosiddetto «partito romano» e gli altri, usando come spartiacque una mentalità conservatrice ed autoreferenziale, prima ancora che categorie dottrinali o generazionali. Per quanto forse esagerato dalla novità , il fatto che fra i papabili siano spuntati in maggioranza americani, del Nord o del Sud America, riflette il ridimensionamento dell’euro e dell’italo-centrismo nella geopolitica vaticana; e il bisogno prepotente di allargare gli orizzonti. In realtà , molti dei cardinali sono accomunati da una certa inesperienza in materia di Conclave. E temono di trovarsi a giocare su un terreno disseminato di insidie, prima di stringere un accordo. A sentirsi minacciato è soprattutto il gruppo di coloro che tengono in mano le redini della Curia.
Si avverte il tentativo di ridurre l’impatto di un Conclave «antiromano», puntando magari su candidati stranieri di nascita ma profondamente radicati nelle logiche dei Sacri palazzi. Un esponente brasiliano come l’arcivescovo di San Paolo, Odilo Scherer, è stato presentato dunque come «il candidato della Curia», che ieri ha difeso insieme allo Ior. Mentre quello di Milano, cardinale Angelo Scola, non è mai stato considerato un beniamino del «partito romano»: fin dai tempi in cui se ne parlava come possibile presidente della Cei. Nei giorni scorsi si sono sentite parole in difesa di una «Curia calunniata». È un riflesso che porta a ritenere «tutti peccatori», e dunque ad annacquare la profondità della crisi e l’esigenza di reagire in modo forte. Eppure, il vero rischio non sono gli attacchi a «Sacri palazzi» che di sacro tendono a mostrare sempre meno. La minaccia per la Chiesa appare il silenzio, la banalizzazione dei problemi, il finto rinnovamento: un gattopardismo vaticano più destabilizzante di qualunque riforma. La rinuncia di Benedetto XVI è lì a sottolinearlo, come un monito per chi sta per scegliere il successore.
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