QUANDO PLATONE PARLA PROPRIO DI NOI

by Sergio Segio | 18 Marzo 2013 9:02

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Come cambia la politica – i suoi soggetti, i suoi strumenti, i suoi contesti? È questa la domanda che in maniera martellante ci insegue dagli schermi televisivi, dalle pagine dei quotidiani, dalla produzione saggistica. Fine dei partiti, crisi della rappresentanza, populismo telematico sono alcune delle categorie attraverso le quali sociologia e politologia cercano di stare al passo col mutamento in una rincorsa ossessiva del nuovo. Ma non è la domanda della filosofia. Ad essa non interessa ciò che cambia, ma ciò che non ambia.
O, forse meglio, ciò che, in una temporalità  sempre più schiacciata sulla dimensione del futuro, permane stabile e si ripete. Se si prendono i tre maggiori pensatori novecenteschi della politica, Carl Schmitt, Hannah Arendt e Michel Foucault, questo è l’interrogativo che muove la loro ricerca: quale è l’essenza della politica? – si chiede il primo nel suo celebre saggio degli anni Venti. Che cosa è la politica?, incalza la Arendt negli anni Cinquanta. Come funziona il potere? si domanda Foucault negli anni Settanta. Nessuno di loro, naturalmente, trascura le trasformazioni storico-concettuali che differenziano radicalmente la scena della polis greca da quella dello Stato moderno, e questo dall’attuale regime biopolitico. Ma con lo sguardo puntato al rapporto genealogico tra origine ed attualità .
È a partire da questa prospettiva che va colto il rilievo del lavoro filosofico di Alain Badiou – uno dei maggiori pensatori francesi e non solo, già  allievo di Althusser e Lacan – e, in particolare, della sua ritrascrizione della Repubblica di Platone (tradotta adesso dal Ponte alle Grazie, per la cura di Ilaria Bussoni e con una limpida introduzione di Livio Boni). In essa – alla fine di un lungo itinerario che ha trovato ne L’Essere e l’evento
(Il Melangolo) l’apice teoretico e ne L’ipotesi comunista (Cronopio) la punta più acuminata – Badiou riconosce nel grande dialogo platonico qualcosa che oltrepassa il suo contesto storico, per parlarci in maniera, appunto, essenziale. Si tratta del rapporto metafisico tra politica, verità  e pensiero. Dove, però, il termine “metafisica” non allude a un piano trascendente e superiore a quello dell’esperienza, ma a un nucleo universale che lo attraversa e lo mobilita dall’interno. Contro l’interpretazione teologica, ma anche contro quella razionalistica di Platone, Badiou difende una lettura dialettica, intenta a coniugare il carattere materialistico della conoscenza sensibile con quello, universale, della verità .
Naturalmente l’autore conosce perfettamente il carattere aristocratico e dunque esplicitamente antidemocratico della concezione platonica. Ma è proprio tale critica della democrazia, inevitabilmente legata al proprio tempo, a mettere il dialogo di Platone in risonanza con la contemporaneità . Nella sua polemica contro gli eccessi “populistici” del demos, non troviamo qualcosa che continua a interpellarci da vicino? E il rifiuto della proprietà  privata, aspramente stigmatizzato da una diffusa tradizione antiplatonica, non contiene un riferimento, certo problematico, alla nostra idea di “bene comune”? Ovviamente per collegare, traversando le epoche, un testo originario come quello platonico alle dinamiche del nostro tempo, occorre operare una sorta di sottrazione del pensiero alla storia in cui si genera e anche a quella cui sembra dar luogo. Ciò spiega come il comunismo, di cui Badiou individua la radice genealogica proprio nel dialogo platonico, possa essere valutato più che in riferimento ai suoi effetti storici, in relazione a una verità  metastorica. E cioè a quella intenzione emancipativa, fondata sull’idea universale di giustizia, poi rovesciata e mortificata in tutte le sue espressioni storiche.
Come l’idea di uguaglianza, anche la tendenza totalitaria – che autori come Popper e perfino Arendt hanno voluto leggere nella concezione platonica – è una modalità  metafisica che tende a risorgere come uno spettro non solo all’esterno, ma anche all’interno della democrazia, tutte le volte che il rapporto tra politica e verità  si cristallizza in una forma bloccata e univoca. Ciò, secondo Badiou, vale per il fascismo, per il comunismo, ma anche, certo in forma diversa, per l’attuale capitalismo finanziario, che esclude di per sé tutto ciò che non rientra all’interno dei propri presupposti.
Cercare un rapporto con la verità  nell’orizzonte della politica non significa oggettivarla in un particolare contenuto, così da cancellare, come errore, tutti gli altri. Il filosofo deve confutare il sofista che è in lui, ma senza mai pensare di poterlo eliminare. In questo senso, secondo l’insegnamento di Lacan, Badiou può sostenere che non soltanto la verità  è vuota, libera di accogliere gli eventi che scuotono la nostra esistenza, ma anche molteplice, come lo stesso essere delle cose, mai univoco e sempre plurale. È così che, pur assegnando all’universale tutti i diritti che il relativismo contemporaneo vorrebbe negargli, l’autore può salvare la logica del singolare, facendo ricorso anche alla teoria matematica degli insiemi di Cantor.
Nella sua godibilissima riscrittura della Repubblica Badiou non si limita a dar voce al suo lessico lacaniano – trasfor-mando ad esempio la caverna platonica in una sala cinematografica o chiamando Dio il Grande Altro –, ma vivacizza il dialogo con una serie di trovate sceniche che egli attinge dal proprio repertorio di drammaturgo. Riproporre oggi, riattualizzandolo, il gesto platonico vuol dire anche ripristinare la potenza creativa di un linguaggio filosofico sempre più appiattito sul lessico incolore della logica formale.

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