Quando guidava la chiesa argentina torture e morte per i preti del popolo

by Sergio Segio | 14 Marzo 2013 12:02

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Nel libro El Silencio, l’intellettuale e giornalista argentino Horacio Verbitsky racconta che quando a Buenos Aires correvano i tempi della dittatura militare, i generali al governo, per lo più intenti a sterminare gli oppositori politici, si resero conto della presenza scomoda di alcuni preti che passavano le loro giornate nelle baraccopoli.
Davanti alla fame e l’ignoranza del loro gregge, questi sacerdoti mandati nelle chiese a cielo aperto della città  di lamiere, avevano compiuto il gesto rivoluzionario di affiancare alla messa anche qualche corso d’istruzione elementare e qualche pentolone da cui chiunque potesse mangiare. Un fatto di per sé innocente, non fosse che queste azioni venivano compiute alla luce della Teologia della liberazione, quell’idea strana che mette nel frullatore il Vangelo di San Matteo e il Capitale di Carlo Marx, tirandone fuori una guida all’azione che non proibisce l’uso combinato di pistole e crocefissi.
I generali, guidati in quel momento da Jorge Rafael Videla, pensarono che la pratica fosse controproducente: i poveri è meglio che restino poveri e ignoranti, sia mai che si accorgano di essere sfruttati e decidano di rovesciare il governo. La Curia argentina, d’altra parte, che già  all’epoca era guidata da Bergoglio, si trovò d’accordo: andava bene tutto, ma i preti comunisti proprio no. Fu così che, sempre secondo le testimonianze raccolte ne El Silencio, iniziarono le intimidazioni e le minacce da parte della Casa Rosada e della Chiesa nei confronti dei missionari delle baraccopoli. Don Yorio, don Jalics, don Douron e don Rastellini furono prima accusati di essere fiancheggiatori della guerriglia, poi sequestrati, portati in un campo di concentramento e torturati per giorni. Due di loro sopravvissero, mentre altri due no.

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