Pressing del Ppe per Schifani Ma non c’è l’accordo con Monti

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ROMA — L’elezione dei presidenti delle Camere è il primo tassello della strategia con cui i due acerrimi alleati puntano a sfidarsi di nuovo a giugno nelle urne. Ne sono consapevoli persino i centristi, tanto che ieri il segretario dell’Udc Cesa ha detto pubblicamente come l’avvento di Grasso e Boldrini agli scranni più alti del Parlamento testimoni che «si voterà  presto». E non c’è dubbio che Bersani e Berlusconi abbiano deciso la strada da intraprendere. Ce n’è la prova nei conversari riservati dei due leader, nell’analisi svolta dal segretario democratico, che — forte del risultato raggiunto con le scelte ai vertici di Camera e Senato — ha parlato del voto «entro l’estate» con i suoi più stretti collaboratori, così da capitalizzare il successo della propria linea e impedire che il crescente malcontento della nomenklatura nel partito si trasformi in rivolta e abbia il tempo di saldarsi attorno a Renzi.
Non è quindi un caso se nelle stesse ore il Cavaliere ha fatto gli stessi ragionamenti, incontrando i senatori del Pdl nell’Aula di palazzo Madama: «È preferibile votare a giugno. I sondaggi dicono che prima andiamo alle elezioni e più vinciamo. Perciò, portatemi idee, progetti, contributi. Dobbiamo essere Grillo, ma Grillo con quello che realizziamo. Perché il movimento Cinquestelle non ha proposte, mentre noi dobbiamo dimostrare di avere una marcia in più per segnare la differenza. Inventiamoci qualcosa, i tempi sono cambiati e bisogna tenere il passo. Il vecchio sistema è fallito. Si deve costruire».
Il duello si avvicina e il ballottaggio per la presidenza del Senato tra Grasso e Schifani conforta Bersani e Berlusconi, perché è la dimostrazione che il bipolarismo incarnato da Pd e Pdl esce trionfante da una prova che ha dimostrato da una parte come i montiani siano ormai definitivamente fuori dai giochi, e dall’altra ha rivelato la fragilità  politica dei grillini, che — rinnegando se stessi e la loro idea di trasparenza — hanno evitato la diretta in streaming della riunione di gruppo per non rendere manifesta la spaccatura interna. Lo ha ammesso poco dopo il senatore M5S Bartolomeo Pepe, raccontando che «già  eravamo indecisi sul da farsi. Ma quando è arrivata la dichiarazione della Borsellino a favore di Grasso, i siciliani sono andati fuori di testa. Volevano votare a favore di Grasso, non volevano che vincesse Schifani. Ai siciliani si sono uniti i calabresi e poi i campani. D’altronde la gran parte di noi è più vicina a Bersani che a Berlusconi».
Le piazze sono una cosa gli emicicli parlamentari un’altra. E alla prima prova i grillini si sono trasformati in coriandoli. Era quanto si attendeva il leader del Pd, che mira a drenare il bacino di consensi di Grillo nelle urne, più che fare opera di proselitismo tra i suoi deputati e senatori. Anche perché i numeri non basterebbero a formare un governo capace di reggere anche solo per un anno. Né servirebbero a Bersani le truppe in rotta di Scelta civica, disorientate dalle manovre spericolate del Professore al punto tale da volersi ora affidare a chi — in campagna elettorale — era vissuto come un appestato, un vecchio arnese della politica: Casini. L’ex capo dell’Udc per un verso gigioneggia — «sono stanco, non conto più niente» — e nel frattempo sta dettando la linea, anche ieri l’ha fatto invitando i senatori a non uscire dall’Aula al momento del voto: «Non lo fanno nemmeno i grillini, votiamo scheda bianca».
È stata piuttosto una bandiera bianca, il segno della resa, nel disperato tentativo di mettere una toppa al buco provocato da Monti, protagonista nel primo pomeriggio di una maldestra trattativa con Berlusconi sulla candidatura di Schifani. Tutto era iniziato in mattinata, quando — per favorire la vittoria al Senato del candidato pdl — si era mosso addirittura il presidente del Ppe Martens, che aveva avviato una mediazione riservata con Scelta civica, così da garantire almeno sei voti a Schifani.
Per tutta risposta il premier ha alzato la posta, proponendo al Cavaliere l’appoggio al Senato di tutto il suo gruppo per la presidenza di palazzo Madama, ma a patto che il Pdl lo sostenesse poi nella corsa al Colle e si acconciasse intanto ad appoggiare dall’esterno un governo Bersani. E mentre Berlusconi diceva di no al «mercato delle vacche», Schifani esprimeva tutta la sua «indignazione» per l’atteggiamento «arrogante» di un Monti in parabola discendente. D’altronde che Martens sia intervenuto a favore del pdl berlusconiano, dimostra come siano mutate le cose in pochi mesi anche in Europa.
Con le spoglie del centro da spartirsi e il grillismo in evidente difficoltà , i due acerrimi alleati muovono verso il voto a giugno, sapendo che la prova decisiva non sarà  legata alla formazione del governo ma alla scelta del Quirinale. Berlusconi ormai non ne fa più mistero, anche ieri ha ripetuto che «in base alla strategia elettorale», la scelta «migliore» sarebbe quella di «confermare la permanenza di Napolitano» al Colle. Il Cavaliere non parla a caso, sa che i nomi di Prodi e di D’Alema si «elidono», perché su questi due candidati il Pd è «spaccato», ed è perciò convinto che «alla fine» si convergerà  sull’attuale presidente della Repubblica. Bersani ne sa qualcosa?


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