Pena capitale, stop alle decapitazioni Meglio il plotone d’esecuzione

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Joselito Zapanta, uno delle centinaia di migliaia di manovali filippini che lavorano in Arabia saudita, salverà  il collo ma difficilmente la pelle. Re Abdallah ha sospeso per tre mesi la sua esecuzione per dare più tempo alle autorità  di Manila per raccogliere il milione di dollari che Zapanta deve, come risarcimento, alla famiglia del ricco sudanese che ha ucciso nel 2009. Non sarà  facile. A oggi sono stati raccolti 245 mila dollari. L’unica (tremenda) consolazione per Zapanta è che se a giugno finirà  davanti al boia, sarà  messo a morte in un modo meno cruento. Lunedì, mentre avveniva la 18ma esecuzione capitale in poco più di due mesi, i regnanti Saud hanno dato disposizione ai governatori regionali di ricorrere alla fucilazione al posto della decapitazione con la spada.
Un «segno di civiltà » si potrebbe dire a proposito di questo paese, stretto alleato dell’Occidente, che “lotta per la democrazia” a casa degli altri (Siria) ma nega ai suoi cittadini i diritti civili e politici più elementari, in linea con le direttive provenienti dalle gerarchie religiose wahabite (una delle interpretazioni islamiche più rigide, respinta da gran parte dei musulmani). Senza dimenticare le “riforme” cosmetiche che ogni tanto vengono annunciate: le donne, tanto per fare un esempio, da qualche settimana fanno parte del Consiglio consultivo (shura) ma non possono votare, guidare e sono autorizzate a viaggiare solo se accompagnate da un custode maschio.
La decisione di passare dalle decapitazioni alle fucilazioni, spiegava domenica scorsa il giornale Al Youm, non è frutto di “umanità ” in quel crimine orrendo che è la pena di morte. Bensì la conseguenza della mancanza di «decapitatori», ossia di boia abili nel maneggiare la spada usata per tagliare le teste dei condannati. Inoltre, aggiungeva Al Youm, questi «professionisti», sempre più rari, sono costretti a girare in lungo e in largo per l’Arabia saudita finendo per presentarsi in ritardo al lavoro. E dato che le esecuzioni sono pubbliche, finiscono per lasciare spettatori, autorità  e il povero condannato a morte in attesa per ore.
La fucilazione è la soluzione “giusta” che i regnanti Saud hanno trovato per il loro paese nel quale ogni anno sono messi a morte decine e decine di condannati per omicidi ma anche per rapina a mano armata, stupri, traffico di stupefacenti e stregoneria. Lo scorso anno, secondo un bilancio riferito dall’agenzia Afp sono state eseguite 76 condanne a morte che fanno dell’Arabia saudita, assieme ai “civili” Stati Uniti, all’Iran e alla Cina, uno dei paesi ai primi posti nel mondo per questa sentenza inumana.
Non saranno messi a morte, per fortuna, ma dovranno scontare in carcere una pesante sentenza rispettivamente a 10 e 11 anni di carcere Mohammad al-Qahtani e Abdullah al-Hamid, fondatori dell’Associazione per i Diritti Politici e Civili. I giudici hanno usato il pugno di ferro contro i due attivisti, segnalando che per la monarchia la «primavera araba» e la stagione delle riforme devono rimanere fuori dal paese. A ben poco è servito il fatto che Qahtani fosse stato inserito nell’elenco dei 100 principali intellettuali e pensatori stilata da Foreign Policy. A rendere ancora più inaccettabile la condanna è la motivazione della sentenza. Qahtani e Hamid sono colpevoli «di aver rotto l’alleanza con il re e il suo successore» e «di aver cercato di impedire lo sviluppo del paese» (sic). «È un momento molto difficile per me ma un giorno guarderemo negli occhi dei nostri figli e potremo dire di averci provato con tutte le nostre forze», ha commentato Qahtani dopo la lettura della sentenza. «Questa condanna di fatto è un grande successo per la nostra associazione e la nostra battaglia», ha commentato da parte sua Hamid.


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