Parte la guerra delle due «rose» Veti e richieste per il Quirinale

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ROMA — Sono i numeri — sempre i numeri — la maledizione del Partito democratico. Non bastano per ottenere una maggioranza autonoma al Senato. E non sono sufficienti neanche per consentire alla coalizione di centrosinistra di votarsi il presidente della Repubblica in splendida solitudine. Per questa ragione la strategia studiata a largo del Nazareno per convincere Silvio Berlusconi ad acconsentire alla nascita del governo Bersani è fallita.
Il segretario del Pd tramite Alfano ha fatto avere al Cavaliere la lista dei candidati al Quirinale che potrebbero non dispiacergli: Franco Marini, Giuliano Amato, Pietro Grasso e Giuseppe De Rita. Un elenco breve e due postille. La prima: potremmo mettere tre ministri non sgraditi al leader del Pdl. La seconda: «Se Berlusconi non fa partire il nostro governo, noi non cercheremo la convergenza dei due terzi del Parlamento per votare il presidente della Repubblica, ma ce lo sceglieremo da soli o con i grillini». Berlusconi, però, è andato a vedere il bluff e ha rilanciato, proponendo al Partito democratico non più Gianni Letta (come aveva ipotizzato l’altro ieri), bensì Marcello Pera.
Di fronte a questa mossa Bersani è rimasto spiazzato perché ha capito che l’esile filo a cui si era attaccato si è già  spezzato. Eppure, nella speranza di mandare in porto il suo tentativo, il segretario ha cercato all’inizio di sondare gli umori del suo partito sul nome di Pera. I cattolici ex margheritini si sono inalberati subito: il Quirinale spetta a noi, tanto più dopo che persino Sel ha avuto una poltrona istituzionale con Laura Boldrini. Insomma, Bersani ha avuto la conferma di quel che aveva immaginato quando gli è stata prospettata l’ipotesi di votare Pera al Quirinale: proposta irricevibile da rinviare al mittente.
E pensare che il leader del Partito democratico riteneva di avere margini di manovra ben più ampi. «Ci vorrà  un supplemento di indagine», aveva spiegato a tutti i suoi interlocutori del centrodestra. Come a dire: con il tempo le cose possono aggiustarsi. Infatti il segretario pensava di andare al Quirinale domani, ma ora ha capito che non sarà  il trascorrere dei giorni a salvarlo e ha fatto sapere che salirà  al Colle già  oggi, verso le sei di sera. Inutile indugiare oltre: il Pd non può riuscire a votare Pera. Magari qualcuno non sarebbe contrario — è stato il ragionamento fatto nelle riunioni informali del Pd che si sono susseguite per tutta la giornata — ma per il nostro elettorato equivarrebbe all’inciucio. Perciò, meglio lasciar perdere.
Ora il rischio è quello di un governo del Presidente che giungerà  in aula senza consultazioni. Potrebbero guidarlo Giuliano Amato o Luciano Violante, dicono al Pd. Ma questi nomi non rendono meno dolorosa la sconfitta. Spiega Bersani ai suoi: «Noi potremmo anche contribuire a far nascere un governo del genere, ma quanto durerebbe? Certo dopo la fiducia non potrà  contare sui voti del Pd per ogni provvedimento: non sarà  â€” non potrà  mai essere — il nostro governo. Avrebbe vita breve: se Berlusconi lo vuole deve anche sapere che così andrà  a sbattere». Parole amare. Parole che confermano che ormai anche i dirigenti del Pd hanno compreso che tornare alle urne tra qualche mese è impossibile. E che perciò ci si deve acconciare. In un modo o nell’altro. «Sarà  difficile spiegare ai nostri elettori per quale motivo voteremo con il centrodestra, dopo che avevamo detto che non avremmo mai più replicato la strana maggioranza del governo Monti», diceva ieri a qualche amico Dario Franceschini. Mentre Rosy Bindi in pieno Transatlantico minacciava: «Se si fa l’inciucio io mi dimetto da presidente del partito».
Non sarà  governissimo, certo, ma non sarà  nemmeno facilissimo far capire ai militanti quel che è successo. «Gli italiani — è il ragionamento fatto ieri da Bersani — hanno bocciato sia le larghe intese che i governi tecnici. Il Paese ci ha chiesto altro e ci ha detto di non cercare compromessi obbligati o alleanze necessitate. Non ascoltare il responso dell’elettorato sarebbe un suicidio». Una riflessione ad alta voce venata di tristezza, come di chi è consapevole che le cose non sono andate per il verso giusto: «In queste condizioni basta che Berlusconi alzi il telefono per far saltare tutto». E Berlusconi, effettivamente, quel telefono lo ha alzato per dire ad Alfano di dichiarare chiusa la trattativa, a meno che Bersani non ci ripensi e non dica di sì a un candidato del Pdl per il Colle.
Eppure nello staff del segretario ci sperano ancora: «Aspettiamo la nottata, che potrebbe portare consiglio: eppoi c’è un altra giornata ancora per tirare le somme». E intanto Matteo Renzi è da ieri a Roma…


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