Obama non vede le colonie

by Sergio Segio | 22 Marzo 2013 9:25

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RAMALLAH. A Gerusalemme sorridente e spiritoso con il premier israeliano Netanyahu. A Ramallah rigido e senza entusiasmo a colloquio con il presidente dell’Anp Abu Mazen. Ecco in due immagini la scelta di campo di Obama. Che nel 2009, con il discorso al Cairo, aveva fatto sperare a milioni di arabi e palestinesi una politica americana più bilanciata in Medio Oriente. Nel 2013 il presidente Usa genera solo delusione. Tra i palestinesi, non certo tra gli israeliani. Venuto nella regione per conquistare l’opinione pubblica israeliana, ancora scettica su di lui, Obama a Ramallah è andato al solo scopo di rimproverare ad Abu Mazen per aver scelto lo scorso novembre la strada dell’Onu per il riconoscimento dello Stato palestinese. E soprattutto per esortarlo a tornare subito al tavolo di una trattativa, priva di prospettive, con il nuovo governo di destra guidato da Netanyahu, rinunciando allo stop della colonizzazione israeliana. Come sottolineava Matti Friedman sul giornale on line Times of Israel, Barack Obama ha abbandonato la linea mantenuta nel primo mandato degli obblighi da rispettare per israeliani e palestinesi per l’avvio di una trattativa concreta, per sposare la causa del negoziato senza precondizioni.
Mentre le ruspe lavorano
In sostanza, sulla base della sua «svolta», i negoziati dovrebbero andare avanti a tempo indeterminato, magari per anni (oltre ai 20 già  trascorsi dalla firma degli Accordi di Oslo) mentre le ruspe israeliane spianano il futuro territorio dello Stato palestinese per espandere le colonie. Alla fine ciò che avanzerà  da questo immenso e incessante programma edilizio nei Territori occupati, sarà  chiamato «Stato palestinese».
«Puntuali» i razzi da Gaza
A facilitare il compito di un presidente appiattito sulle preoccupazioni di sicurezza di Israele, sono stati ieri mattina i miliziani palestinesi ai quali alcune «teste di legno» di Gaza hanno dato il via libera per il lancio di razzi verso il territorio israeliano. Allo scopo, forse, di dimostrare a Israele e a Obama che la «resistenza» rimane operativa nella Striscia. Un rischio «calcolato» da parte di chi, dalla fine dell’offensiva militare israeliana dello scorso novembre, ha religiosamente (è il caso di dire) applicato i termini del cessate il fuoco che gli era stato imposto proprio dagli Usa e dai Fratelli musulmani al potere in Egitto. Razzi, sparati contro abitazioni civili, che non hanno causato vittime ma danneggiato solo la causa palestinese. Israele non ha neppure pensato di reagire militarmente tanto era evidente il colpo che quei razzi hanno inferto all’immagine della controparte. Per Obama è stato un invito a nozze. Nel pieno della conferenza stampa con Abu Mazen, ha condannato ripetutamente quei lanci contro Israele e rivolto duri attacchi al movimento islamico Hamas che controlla la Striscia.
Il resto per Obama è andato liscio come l’olio. «Se si pensa a soddisfare prima le condizioni poste dagli uni e dagli altri, non si arriverà  mai ad un negoziato volto a raggiungere risultati», ha affermato rispondendo, con una certa riluttanza, ad una domanda sullo stop alla colonizzazione israeliana, dopo aver cercato più volte di aggirare la questione facendo riferimento alle «potenzialità  dei giovani palestinesi». Ad un certo punto il presidente Usa ha ammesso che le colonie «sono controproducenti» e un ostacolo. Ha riconosciuto che i palestinesi meritano la libertà  e l’indipendenza e detto che sulla mappa politica della regione dovrà  nascere uno Stato palestinese sostenibile e con un territorio omogeneo. Ma non ha spiegato come ciò possa avvenire mentre questo Stato viene tagliuzzato e spezzettato in più cantoni dalla colonizzazione israeliana. Alla fine della conferenza stampa è esploso pure Abu Mazen. «Non è solo una nostra percezione che gli insediamenti sono illegali. È una prospettiva globale – ha detto – Tutti considerano gli insediamenti non solo come un ostacolo, ma ben più che un ostacolo alla soluzione dei due Stati». «Stiamo chiedendo nulla di più che la legittimità  internazionale. – ha proseguito Abu Mazen – È responsabilità  del governo israeliano interrompere la costruzione di colonie in modo che possiamo almeno parlare. La questione degli insediamenti è chiara. Non abbandoneremo mai la nostra opinione in merito». Il presidente dell’Anp ha anche spiegato che «di questo abbiamo parlato…e gli abbiamo chiarito la nostra posizione in merito e come possiamo giungere a una soluzione». Poi sono arrivate le strette di mano, i sorrisi, le frasi di circostanza. Obama e Abu Mazen si rivedranno stamattina a Betlemme. Obama, prima di trasferirsi in Giordania – dove discuterà  con re Abdallah soprattutto di Siria – ha chiesto di visitare la Chiesa della Natività , per mostrarsi vicino alla comunità  cristiana.
«Davvero peggio di Bush»
Il presidente americano è ripartito per Gerusalemme mentre fuori dalla Muqata, il quartier generale di Abu Mazen a Ramallah, centinaia di palestinesi, tenuti a bada dai reparti antisommossa (addestrati con soldi americani), scandivano slogan contro gli Stati Uniti e issavano cartelli e striscioni contro Obama. Un presidente, dicevano, uguale a tutti i suoi ultimi predecessori. «No, non è così. Obama è molto peggio anche di George W. Bush – spiegava Nancy, americana di New York giunta a Ramallah per manifestare a favore dei diritti dei palestinesi – Bush era rozzo e ignorante, Obama invece sa cosa accade in Medio Oriente, non è uno sprovveduto. Sa bene perchè si perpetua il conflitto in questa terra. Per questo è ancora più colpevole di chi lo ha preceduto». Se ne rende conto anche Abu Mazen. Per lui la notte scesa qualche ora dopo è apparsa ancora più buia del solito.

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