Obama all’attacco (con gaffe) sui tagli del Congresso

by Sergio Segio | 4 Marzo 2013 8:54

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NEW YORK — «I parlamentari se ne sono andati via per il weekend» senza aver neutralizzato i tagli automatici di bilancio lasciando «tutti in Campidoglio, dal personale che pulisce i pavimenti alle guardie che garantiscono la sicurezza del Congresso, a subire un taglio di stipendio a causa del “sequester” dei fondi federali. Questa è la realtà ». Parole di Barack Obama nella conferenza stampa di venerdì. Un estremo tentativo di illustrare le conseguenze negative di un atto amministrativo altrimenti impalpabile, le cui conseguenze sull’economia e sui servizi pubblici si faranno sentire in modo molto graduale.
Ma, nel tentativo di drammatizzare la crisi fiscale, il presidente ha esagerato fino al clamoroso autogol: «Nessun taglio di stipendio previsto» è stata la secca smentita del Sovrintendente del Campidoglio, Carlos Elias, contenuta in un comunicato che facendo riferimento alla dichiarazione di venerdì di Obama, tratta il presidente da «esponente dell’Amministrazione di grado elevato». Nella sua speciale rubrica di controllo della veridicità  dei fatti («fact checking»), il Washington Post, ha dato al presidente due Pinocchi. Dopo le rimostranze della Casa Bianca, un’ulteriore verifica dei giornalisti sui piani d’emergenza del Congresso e avuta la conferma che non solo il personale di manutenzione, ma nemmeno quello di sicurezza sentirà  l’effetto dei tagli in busta paga, i Pinocchi del quotidiano della capitale sono diventati quattro: il massimo della bugia.
L’aneddoto rende bene il clima di scontro che ha di nuovo preso il sopravvento a Washington, col presidente impegnato in un duro braccio di ferro coi repubblicani che non solo non hanno fatto marcia indietro sugli 85 miliardi di dollari di tagli automatici scattati il primo marzo, ma obbligano ormai da sei mesi il governo ad andare avanti in condizioni di esercizio provvisorio del bilancio, con le spese autorizzate mese per mese.
Obama ha scelto la linea dura perché convinto che nelle attuali, perduranti, condizioni di debolezza dell’economia, l’«austerity» può far scivolare di nuovo l’America in recessione: un errore imperdonabile, soprattutto avendo sotto gli occhi quello che è accaduto nell’Europa frenata dall’eccesso di rigore. E se vari Paesi della Ue rischiavano di perdere l’accesso la credito, il Tesoro Usa, benché super indebitato, continua a trovare risparmiatori che gli prestano denaro a tassi prossimi allo zero.
Ma l’atteggiamento del presidente riflette anche un disegno più ambizioso, un calcolo politico di più lungo periodo. Abbiamo scritto giorni fa che Obama si è ormai convinto che i repubblicani vogliono paralizzare l’azione del governo anche in questo suo secondo mandato. E che, di conseguenza, per lui l’unico modo di far approvare riforme capaci di divenire l’eredità  politica della sua presidenza è quella di sconfiggere la destra alle elezioni di «mid term» del 2014 riconquistando il controllo di tutti e due i rami del Parlamento.
Ieri il Washington Post ha messo insieme i tasselli di questa strategia raccontando dell’impegno di Obama per trovare con largo anticipo finanziatori per la campagna del 2014 e del lavoro organizzativo già  impostato da Jim Messina, il «campaign manager» principale artefice della vittoria del novembre scorso. Messina ora guida una nuova macchina, Organizing for Action, che fiancheggia la Casa Bianca e che potrebbe diventare più influente dello stesso partito democratico in vista delle nuove elezioni.
Preoccupato di non apparire come un presidente passato troppo bruscamente dalla linea «bipartisan» al muro contro muro, il presidente ha fatto sapere ieri di aver ripreso il giro di telefonate ai leader repubblicani alla ricerca di un compromesso. Ma la situazione resta di stallo.
Massimo Gaggi

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