Nel Pd passa la linea Bersani: strada stretta, non c’è piano B

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ROMA — Unanimità , come previsto, con un astenuto. La Direzione del Partito democratico finisce così, con Pier Luigi Bersani che ottiene dal suo partito il mandato pieno, se il capo dello Stato gli affiderà  l’incarico, a presentarsi in Parlamento chiedendo di formare un governo sulla base di otto punti programmatici. Offerta rivolta innanzitutto al Movimento 5 Stelle e ad alto rischio di naufragio, come ammette: «È un sentiero stretto». Ma un eventuale piano B, dice Bersani, non c’è perché non possiamo permetterci «paludi e paralisi». L’unanimità  della direzione, in realtà , nasconde posizioni molto diversificate. E gli occhi di tutti erano puntati su Matteo Renzi, sconfitto alle primarie, ma pronto a rimettersi in pista nel caso il primo tentativo di Bersani fallisse. Il sindaco di Firenze (che secondo il suo portavoce si ricandiderà  al Comune) non ha «pugnalato», come promesso, il segretario ma se n’è andato subito dopo la relazione, senza parlare.
«Tocca a noi», dice Bersani, che in serata telefona al capo dello Stato per riferirgli le proposte del Pd. Il segretario esordisce in Direzione con un’analisi del voto, senza grandi autocritiche. Attribuendo il deludente risultato elettorale al «sommovimento profondo di dimensione europea» oltre «al fatto che si pensava che non ci fosse più il nemico». Poi passa al «che fare», di leniniana memoria. Sfidando il M5s: «Deve dire cosa vuole fare dei suoi voti. Se vuole aspettare un accordo spurio su cui sparare a palle incatenate o l’autodistruzione del sistema». Per parte sua, il Pd «si assumerà  la responsabilità », coniugata con «il cambiamento», ed è pronto a un dialogo con le altre forze, «in particolare con Scelta Civica». Sì a «soluzioni di corresponsabilità  istituzionali», ma nessun accordo è «praticabile né credibile con la destra berlusconiana».
Seguono otto ore di dibattito, nel quale emergono le diverse anime del Pd, diviso soprattutto sul fantomatico piano B. A rappresentare il no al ritorno alle urne ci pensano Beppe Fioroni e Paolo Gentiloni: «Se non andasse in porto il tentativo di Bersani, non si va necessariamente al voto subito: dobbiamo avere fiducia in Napolitano». Sul «governo del presidente», Bersani non si esprime: «Per definizione non tocca a noi decidere». Non è un mistero che la tesi del ritorno alle urne, in caso di insuccesso del tentativo di «stanare» il M5S, è sostenuta innanzitutto dai «giovani turchi», dirigenti come Matteo Orfini e Stefano Fassina.
Sul no a Berlusconi, invece, non ci sono incertezze, anche da parte di chi non disprezzerebbe un tentativo di accordo anche con il Pdl. Come Massimo D’Alema: «Mi rammarico che in un momento così drammatico nazionale non vi sia una risposta di unità  nazionale. Il problema è Silvio Berlusconi». Ma se non ci fosse? «Dobbiamo liberarci dal complesso e dalla malattia dell’inciucio: Gramsci diceva che la paura dei compromessi è indice di subalternità  culturale».
Nella replica, Bersani coglie qualche suggerimento: «Ho sentito Renzi dire che è un punto debole il finanziamento ai partiti. Sono assolutamente disponibile a un superamento dell’attuale sistema, a patto che sia connesso con le norme sul funzionamento democratico dei partiti». Bersani, poi, si interroga su come reagire al malessere: «Se con una rinnovata radicalità  secondo la quale non possiamo accettare l’Europa con un pensiero unico armato e diciamo che stavolta non ci stiamo a tutti i prezzi».
Nella complessa partita politica, c’è anche quella che riguarda il nuovo inquilino del Colle. «Io non penso al Quirinale — risponde Romano Prodi a chi lo interroga — Per ora penso solo all’impegno africano che è sempre più pesante».


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