Napolitano, la via per uscire dall’impasse

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«Faccio appello alle mie energie e ovviamente cerco di mobilitarle», aveva confidato a Berlino Giorgio Napolitano, a poche ore dal rientro in Italia. Sapendo che avrebbe trovato una situazione difficilissima, si preparava ad assumere la regia del dopo-voto. Un compito per qualcuno «proibitivo» e di sicuro faticoso. Lo dimostrano le prime e frustranti prove di dialogo tra i partiti, ancora fondate più sulle sfide e sulle provocazioni reciproche che su un’autentica disponibilità  a cercare qualche intesa. Tuttavia, mentre ci si concentra sulle ipotesi di governo, incombe già  l’incognita delle elezioni dei presidenti di Camera e Senato, adempimenti preliminari per dare funzionalità  al nuovo Parlamento. Ora, posto che il Pd dispone a Montecitorio di una maggioranza sicura e ampia e lì è dunque in grado di «chiudere la pratica» subito, per Palazzo Madama il discorso è più complesso. Perché senza un accordo si rischia che non passi nessuno e si sa che, dalla quarta votazione, si andrebbe al ballottaggio, con esiti molto incerti.
Ecco un nodo da sciogliere in fretta, individuando per la seconda carica dello Stato un indiscutibile nome di garanzia che non permetta a qualcuno — cioè al Movimento 5 Stelle — di gridare al compromesso di basso profilo, all’inciucio. A margine c’è l’altra trattativa, la più importante, sulle alleanze politiche possibili e sulle formule del prossimo esecutivo. E qui ci sono alcuni punti fermi su quello che Napolitano, alla cui «saggezza» ci si appella, potrebbe fare.
Il governo di minoranza (o «di cambiamento») evocato da Pier Luigi Bersani, ad esempio, resta una possibilità  problematica. Durante le consultazioni, infatti, il presidente della Repubblica avrà  bisogno di mettere a verbale risposte convincenti a un paio di questioni. In primo luogo dovrà  avere la ragionevole certezza che l’aspirante premier possa assicurare il numero legale di 160 senatori, considerando che, se alcuni uscissero dall’aula per far passare la fiducia, altri potrebbero uscire per farla mancare. Servirà  poi che i «sì» prevalgano sulla somma di «no» e di astensioni, calcolando che alcuni rientrino per garantire il numero legale votando «no» o astenendosi e che in quella fase potrebbero rientrare anche altri per mettere il «sì» in minoranza. Due subordinate che il capo dello Stato — e prima di lui il segretario del Partito democratico, com’è ovvio — deve cercare di risolvere in modo convincente lungo il proprio percorso.
Ma se pure Bersani non fosse del tutto sicuro dei numeri di cui dispone, poiché il suo partito ha la maggioranza alla Camera, ramo di maggiore rappresentatività  del Parlamento, Napolitano potrebbe comunque concedergli un tentativo. Magari con un incarico «esplorativo», così che l’eventuale fallimento sia attutito e risulti meno compromettente e traumatico.
Anche l’ipotesi di una proroga a oltranza di Mario Monti a Palazzo Chigi non sembra praticabile, dal punto di vista costituzionale e quindi dello stesso presidente. Non a caso il professore oggi dispone solo di poteri di «ordinaria amministrazione», nulla che valga pleno jure. Pensare di farlo sopravvivere addirittura per qualche mese (ciò che richiederebbe un reinsediamento, attraverso un voto di fiducia delle Camere politicamente da escludere), sarebbe una forzatura.
In questo quadro lo sbocco che ha forse maggiori probabilità  per uscire dall’impasse ed evitare un rapido ritorno alle urne, sarebbe quello in un certo senso quasi disperato. Ossia un governo di scopo, o comunque lo si battezzi, per il quale il capo dello Stato incarichi una figura di profilo istituzionale (e i nomi non sono moltissimi, ma quello del ministro dell’Interno ed ex prefetto, Anna Maria Cancellieri, vi rientra), cui affidare una missione limitata, dopo una fiducia tecnica, andando di volta in volta a cercarsi i voti in Parlamento e confidando nel buon senso dei partiti: riformare la legge elettorale e approntare qualche misura in campo economico che le performance dello spread e dei mercati rendessero indispensabile e urgente.
Scenari ai quali se ne aggiunge un altro, estremo, che citiamo per liquidarlo: quello di dimissioni anticipate dello stesso Napolitano, in modo che la gestione della nuova fase politica vada al successore. È un’ipotesi — circolata forse come wishful thinking di qualcuno a Montecitorio — dell’irrealtà , perché una simile scelta aumenterebbe i rischi di sfascio ed equivarrebbe ad una caduta di responsabilità  inimmaginabile, da parte del capo dello Stato. Il quale tra l’altro, prima che il Parlamento elegga chi sarà  destinato a sostituirlo, a norma di Costituzione dovrebbe passare la mano al suo naturale «supplente»: l’attuale presidente del Senato, Renato Schifani.
Mentre tutto è caoticamente in movimento, Napolitano si limita a seguire a distanza gli approcci tra i partiti. «Nessun contatto e nessun consulto né formale nè informale», precisa il Colle, smentendo con fastidio quanto alcuni insistono a scrivere.
L’unico confronto che finora il presidente si è concesso è un faccia a faccia con Mario Monti, ieri, per parlare di «questioni di governo in vista del Consiglio Europeo del 14 marzo». A lui, come aveva anticipato la settimana scorsa in Germania, ha suggerito di consultarsi subito con le forze politiche (tutte, non solo quelle della «strana maggioranza» che lo ha sostenuto per 13 mesi), così da poter presentare a Bruxelles una posizione italiana coerente e affidabile. In grado insomma di dimostrare che il nostro «non è un Paese allo sbando».


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