Male i distretti industriali, il 75% si è ridotto

by Sergio Segio | 21 Marzo 2013 8:04

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ROMA — La crisi li ha massacrati, dimezzati, costretti a cambiare prodotti, vertici e mercati di vendita, ha minato la loro granitica sicurezza del “piccolo, ma bello”, eppure non li ha domati. I distretti industriali, un tempo fiore all’occhiello dell’economia italiana, hanno accusato il colpo, ma stanno reagendo. La loro storia di difficoltà  e di rilanci è raccontata nell’ultimo rapporto Censis sul settore che, analizzando 56 centri di produzione “storici”, detta crude cifre di bilancio, ma descrive anche la loro testarda tendenza a rinnovarsi. Magari producendo tailleur per le nuove clienti russe e cinesi.
I numeri della crisi non fanno sconti a nessuno: fra il 2009 e il 2012 il 75 per cento delle aziende è stato costretto ad un forte ridimensionamento e il 3,8 per cento delle imprese è letteralmente scomparso, ma tale quota sale al 19,4 nel distretto delle calzature di Verona, al 16,2 fra gli orafi di Vicenza, al 14,9 nell’abbigliamento sempre di Verona, all’11,5 per cento del triangolo delle sedie friulano. Segnali di profonda crisi che l’export è riuscito solo in parte ad attenuare. Il Censis parla infatti di «pericoloso cortocircuito » e fa notare come «i processi di internazionalizzazione hanno ormai scarsi o nulli ritorni sul territorio». L’export funge da «ammortizzatore» per le aziende che nel passato hanno saputo investire e che, nonostante la crisi si ostinano a farlo ancora, ma non ha salvato dallo «scoraggiamento » il distretto del mobile imbottito di Matera, il tessile di Prato e il calzaturiero di Casarano. Il 64 per cento degli imprenditori ascoltati dal Censis ritiene obsoleto o non più efficace lo stesso modello di distretto, oltre il 65 confessa un recupero parziale sulle posizioni produttive perse dall’inizio della recessione.
La crisi è evidente, ma altrettanto evidente è il desiderio di uscirne: «I tentativi di riposizionamento non mancano», commenta il Censis. Un caso su tutti è quello che riguarda il sistema Verona Moda, che un tempo produceva soprattutto abbigliamento per grandi catene distributive – da Coin a Oviesse – e che ora sta invece puntando ai clienti cinesi. «E’ cambiata soprattutto la rete – sottolinea Anna Caprara, direttore del distretto – qui siamo da sempre bravi a produrre, meno bravi a commercializzare. Forniamo un prodotto chiavi in mano: dal modello alla confezione, garantendo la medio- alta qualità  made in Italy. Vista la crisi, avevamo già  diversificato la vendita ai francesi, tedeschi e russi, ma nell’ultimo anno sta crescendo soprattutto il business con la Cina». La fetta di mercato, spiega, non supera ancora il 5 per cento, ma le potenzialità  sono enormi. Anche con i buyer di Pechino funziona il modello chiavi in mano: «Ci danno alcune indicazioni di fondo, ma per il resto lasciano fare a noi – dice Caprara – e i vestiti che produciamo vengono poi venduti nelle grandi catene cinesi mantenendo la doppia etichetta, quella di Verona e quella locale». Certo precisa, «abbiamo imparato a interpretare le loro esigenze: non usiamo il rosso, il bianco, le stampe floreali o i colori sgargianti e ci orientiamo su tinte più classiche da loro preferite. Modifichiamo tagli e confezioni, vendiamo più capotti che piumini, studiamo le richieste delle nuova classe dirigente, quella che vede nel vestito made in Italy la prova di una carriera in ascesa». Da Verona, quindi, partono per la Cina soprattutto modelli che qui sono stati il simbolo dei rampanti anni Ottanta: tailleur per donna in carriera e completi maschili giacca e cravatta.

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