by Sergio Segio | 1 Marzo 2013 15:52
Il 2012 è stato un annus horribilis per l’economia reale e le sue difficoltà si sono riverberate sul sistema finanziario, come emerge dalle difficoltà registrate nel sistema bancario. I dati negativi dei conti pubblici sono un utile indicatore dell’inefficacia delle politiche economiche adottate. Con il governo Monti c’è stato un peggioramento del rapporto debito/pil, balzato al 127%, dovuto da un lato alla contrazione annua del prodotto nazionale – 2,2% con un pessimo – 0,9% nell’ultimo trimestre, il sesto consecutivo con segno negativo – e dall’altro dalla crescita in termini assoluti del debito pubblico, aumentato di 81 miliardi. Pessimi risultati ottenuti nonostante il cospicuo avanzo primario raggiunto attraverso le dure manovre economiche che hanno prodotto un aumento delle entrate fiscali contemporaneamente a una decisa riduzione di spesa.
Nonostante il contenimento temporaneo dello spread, la spesa in interessi supera gli 80 miliardi annui, a cui a partire dal 2013 con il fiscal compact andrà aggiunto un aggravio sui conti dello stato di altri 45 miliardi di euro.
Quale tasso di crescita potrebbe far fronte a queste zavorre? Ormai la possibilità di una riduzione significativa del debito pubblico attraverso il rigore e i tagli alla spesa è semplicemente impossibile nelle attuali condizioni. Ma una tale miopia, quando si parla di impresa, per la verità non viene neppure presa in considerazione. Se un’azienda è in crisi e necessita di un programma di risanamento, uno dei punti che vengono presi immediatamente in considerazione riguarda la ristrutturazione dei suoi debiti. In un manuale pubblicato recentemente da diversi autori dal titolo «Piano industriale e crisi d’impresa» (Maggioli editore) si parla espressamente della necessità di «un vero e proprio piano di ristrutturazione dei medesimi debiti pregressi, con l’obiettivo di rendere credibile ed apprezzabile la sopravvivenza nel breve ed il rilancio nel medio/lungo periodo».
È strano che si chieda sempre più spesso allo stato di funzionare come un’impresa, salvo poi attestarsi su una linea che rifiuta di provare a ristrutturare il debito e, finché riesce, munge le risorse pubbliche a uso privato, poiché le regole d’impresa in questo caso scontenterebbero importanti creditori al posto dei soliti tartassati debitori. Per poi magari giungere a un default che, come in Grecia, penalizzerebbe soltanto i creditori più deboli. Sarebbe bene pensare subito invece ad una ristrutturazione sociale e dal basso del debito sovrano.
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