«Obama in Israele salga sui bus dell’apartheid»
«Si sentono talmente forti e impuniti da non dover ricorrere più alla “giustificazione” della sicurezza minacciata. , privi di dignità oltre che di diritti. Ciò che mi sconvolge e indigna è il silenzio della comunità internazionale, dei governi come delle opinioni pubbliche. Tra qualche settimana il presidente Obama visiterà Israele e la West Bank. Per capire davvero cosa significhi vivere sotto occupazione, in un regime di apartheid, gli consiglio un viaggio su uno di quei bus della vergogna».
A parlare è una delle figure più rappresentative della dirigenza palestinese: Hanan Ashrawi, più volte ministra dell’Anp, prima donna ad essere nominata portavoce della Lega araba, oggi paladina dei diritti umani nei Territori palestinesi.
In Israele si discute sugli autobus «per soli palestinesi» istituiti per i pendolari arabi con il permesso di lavoro nello Stato ebraico. Qual è, a suo avviso, il segno di questa misura?
«Il segno dell’arbitrio, l’ennesima riprova di una cultura colonizzatrice che punta non solo a sfruttare i lavoratori palestinesi ma a umiliarli come persone, a cancellarne la dignità oltre che i diritti. Ora si sentono talmente forti e impuniti da non dover nemmeno giustificare queste odiose misure tirando in ballo la sicurezza minacciata. Quei pendolari non rappresentano una minaccia per Israele, ma sono persone su cui ci si consente di esercitare ogni sorta di pressione, fisica e psicologica».
Tra qualche settimana Barack Obama farà la sua prima visita da presidente degli Stati Uniti in Israele e Cisgiordania.
«Al presidente Obama consiglierei di toccare con mano, direttamente, la sofferenza di un popolo sotto occupazione. Più che parlare con i dirigenti, parli con la gente palestinese, si fermi a uno dei tanti check point che spezzano in mille frammenti la Cisgiordania; viaggi su uno dei bus della vergogna e visiti uno degli innumerevoli villaggi palestinesi spaccati in due dal Muro israeliano. Osservi attentamente tutto ciò, gli servirà per capire una amara, tragica realtà …».
Quale sarebbe questa realtà ?
«Israele ha svuotato di ogni senso concreto un ipotetico negoziato. Lo ha fatto con la politica degli atti unilaterali, trasformando insediamenti in vere e proprie città , annettendosi di fatto le terre palestinesi, costringendo centinaia di famiglie palestinesi a lasciare Gerusalemme Est». In linea di principio, Netanyahu non scarta la prospettiva di uno Stato palestinese.
«Forse lo fa a parole, ma nei fatti ha portato avanti una politica che nega la praticabilità di una pace fondata sul principio “due popoli, due Stati”. Che Stato sarebbe quello che non ha il pieno controllo su tutto il territorio nazionale? Uno pseudo Stato disseminato di insediamenti israeliani al proprio interno, costretto a rinunciare a Gerusalemme Est come sua capitale. Questo non è uno Stato, è un bantustan trapiantato in Medio Oriente. I bus segregazionisti, il Muro dell’apartheid, uno “Stato” bantustan… La Palestina come il Sudafrica dei tempi peggiori. E non è un caso che a denunciare questa similitudine sia stato uno dei grandi protagonisti, assieme a Nelson Mandela, della lotta contro il regime dell’apartheid in Sudafrica: Desmond Tutu ( l’arcivescovo sudafricano premio Nobel per la pace, ndr)».
C’è il rischio che si ritorni ai tempi, tragici, della seconda Intifada, l’«intifada dei kamikaze»?
«Intorno a me vedo crescere di giorno in giorno frustrazione, disincanto. E soprattutto rabbia. Una rabbia che rischia di esplodere, non oggi, forse, ma in un futuro non lontano. Per quanto mi riguarda, ho sempre
ritenuto che la militarizzazione dell’Intifada sia stato un grave errore che non dobbiamo ripetere. Tra gli “shahid” e la rassegnazione esiste una terza via».
Quale?
«La vita della rivolta popolare, non violenta, che recuperi lo spirito della prima Intifada, che fu davvero rivolta di popolo che portò la questione palestinese al centro dell’interesse del mondo».
La forza dello Stato d’Israele non sta anche nella debolezza della dirigenza palestinese?
«Come lei ben sa, non ho mai rinunciato all’esercizio della critica, anche a costo di pagarne prezzi personali. Troppe volte, gli interessi di fazione hanno prevalso su quelli del popolo. Così come non ho mai accettato l’idea per cui il dover far fronte all’occupazione israeliana giustificasse misure liberticide da parte delle autorità palestinesi. Di errori ne abbiamo commessi, eccome. Ma ciò non “assolve” Israele. In questa storia, c’è un oppresso e un oppressore, e gli errori del primo non possono giustificare in alcun modo i crimini del secondo»
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