Lo stop tre mesi fa, poi il via libera

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ROMA — In segreto, la scelta di non far ripartire per lo Stato indiano del Kerala Massimiliano Latorre e Salvatore Girone era sotto esame a Roma da mesi. Almeno da quando i marò ricevettero dall’India il primo permesso di tornare a casa il 20 dicembre scorso, per le vacanze di Natale, nonostante fossero in libertà  vigilata a Kochi con l’accusa di aver ucciso i pescatori Valentine Jalestine e Ajesh Binki scambiandoli per pirati il 15 febbraio 2012 mentre i due militari erano di scorta sulla petroliera italiana Enrica Lexie.
Quasi tre mesi fa, risulta al Corriere, era il ministro degli Esteri Giulio Terzi a propendere per non farli rientrare a Kochi in gennaio, senza rispettare l’intesa raggiunta dalle autorità  indiane con l’Italia. A chiedere a gran voce di rinunciare alla partenza dal nostro Paese, allora, era per lo più l’estrema destra. Il presidente del Consiglio Mario Monti, il capo dello Stato Giorgio Napolitano, il ministro della Giustizia Paola Severino ebbero riserve. Ne andava del prestigio dell’Italia.
Paola Severino sostenne che la soluzione andava ricercata dentro un perimetro di sostanziale compatibilità  con il diritto internazionale. Adesso nelle istituzioni nazionali non manca un certo imbarazzo per la parola disattesa verso il Kerala, anche se è vero che il 3 gennaio scorso, quando Latorre e Girone ripartirono per Kochi, la stessa scelta di non restituirli all’India resa nota ieri avrebbe avuto meno appigli legali.
A sentire fonti che si sono occupate del caso, è come se i marò fossero scesi dal percorso a ostacoli sul territorio indiano nella prima fermata legalmente giustificabile. In altri termini: gli Stati Uniti forse si sarebbero ripresi i propri militari con un’incursione, invece la Repubblica italiana, priva di altrettanto peso a livello mondiale e di quelle tradizioni, ha aspettato di far coincidere il mancato ritorno in India dei due fucilieri con la possibilità  di aprire una controversia internazionale su chi li debba giudicare.
Il secondo permesso di rimpatrio, il 22 febbraio, è stato concesso ai marò in occasione delle elezioni. Più lungo del primo: quattro settimane. Una data spartiacque è stata il 18 gennaio. In risposta alle istanze dell’Italia, interessata a difendere Latorre e Girone per dimostrare ai propri militari di non lasciare soli quanti possono incontrare difficoltà  in missioni all’estero, quel giorno la Corte Suprema dell’India ha stabilito: 1) che la giurisdizione sulla morte dei pescatori sarebbe stata indiana, mentre l’Italia la rivendica; 2) che la corte competente del giudizio sarebbe stata indicata da un tribunale ad hoc da costituire; 3) che la Lexie e il peschereccio di Jalestine e Binki non si trovavano in acque internazionali quando dalla nave si era sparato.
La difesa italiana aveva sostenuto che ciò era avvenuto a oltre dodici miglia dalla costa, dunque fuori dalle acque territoriali indiane. A New Delhi si è fatta strada la tesi che il caso rientra nella giurisdizione indiana non soltanto perché le vittime erano su un’imbarcazione di questo Paese (secondo l’Italia spetta allo Stato della nave dalla quale si è sparato, tesi non al riparo da obiezioni), ma perché le acque da considerare erano quelle della zona economica esclusiva, più ampie del tratto di mare a dodici miglia dalla terraferma.
La settimana scorsa, Terzi, Severino e il ministro della Difesa Giampaolo Di Paola hanno infittito le consultazioni in corso da mesi. Il direttore generale degli Affari generali del ministero della Giustizia Eugenio Selvaggi aveva esplorato le vie d’uscita. A quasi due mesi dalla pronuncia della Corte suprema, si è ritenuto che rifiuto di giurisdizione italiana, mancato riconoscimento dell’«immunità  funzionale» che evita processi stranieri ai militari in servizio all’estero, divergenze sulle acque dell’incidente permettessero una controversia secondo l’articolo 283 della United Nations convention on the law of the sea. Prossime tappe: contatti tra India e Italia. Poi, forse scelta di un arbitro internazionale e/o procedimento alla Corte internazionale di Giustizia. Con marò in Italia.
Maurizio Caprara


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