«Non è il mio turno Ma rientro in partita con nuove primarie»

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ROMA — «Io sono in partita soltanto se c’è un secondo giro». È questo che Matteo Renzi ha spiegato a Mario Monti durante il lungo pranzo di Palazzo Chigi, un faccia a faccia a sorpresa che ha gettato nel panico i vertici del Pd. Perché mai il premier ha voluto vedere il sindaco di Firenze, proprio alla vigilia della cruciale direzione nazionale del Pd? E cosa si sono detti, in un momento delicatissimo per la vita del Paese? «Nessuna coltellata alle spalle, nessuno strappo, nessun inciucio». Il grande Rottamatore democratico non è sbarcato nella Capitale per dare a Bersani il colpo di grazia, non ha «nessuna voglia di creare problemi». Al segretario del Pd ha promesso lealtà  e manterrà  la parola: «Ha vinto lui, per me è il mio capo. È un tentativo molto difficile il suo, ma ha diritto alla prima mossa. E io spero che ce la faccia». Se invece fallisce, che succede? «Che si rivota, ma è la soluzione meno auspicabile».
Salvo incidenti di percorso, oggi Renzi parlerà  davanti alla direzione. Ma non ha in mente un intervento di rottura: «Non sarà  un regolamento di conti». Lui avrebbe agito diversamente, è chiaro, però non rimarcherà  la distanza, se non per ribadire che il Pd è uscito sconfitto dal voto e che «ci voleva più rottamazione, non meno rottamazione». E che se Bersani avesse spinto per votare in Parlamento l’abolizione del finanziamento pubblico e il dimezzamento dei parlamentari, «adesso Grillo non sarebbe al 25%».
Se il segretario sceglierà  la linea morbida stemperando le frizioni con il Quirinale, anche Matteo voterà  la sua relazione: «Nessuno di noi si tirerà  indietro, pure se la linea non ci convince. La questione si apre se Bersani non ce la fa». Ed è anche di questo che Renzi ha ragionato con il premier. «L’incontro era fissato da tempo», ha giurato il sindaco, ma nessuno può credere che i due (che si danno amichevolmente del tu) abbiano parlato solo del Maggio fiorentino, del patto di stabilità  e dei vertici europei.
Nel menu presidenziale un piatto abbondante di pastasciutta e gli scenari, presenti e futuri, aperti dal trionfo elettorale di M5S. Con il rebus del governo che sembra non trovare soluzione il sindaco (come il premier) ha capito che fermi non si può stare e ha preso a valutare tutte le opzioni possibili. Ma chi si è spinto a immaginare che Monti e Renzi abbiano ragionato su come unire le forze per conquistare i voti moderati, ha corso troppo con la fantasia. «Tutte fisime, certo non abbiamo fatto le strategie né parlato di alleanze — ha smentito il sindaco correndo verso gli studi di Ballarò —. La speranza mia è dentro il Pd, non fuori». Il ritorno dell’ex enfant prodige sulla scena politica apre interrogativi e ricostruzioni anche estremi, che si spingono fino a immaginare un sindaco che, ancor prima di ingaggiare la sfida per la leadership, guarda fuori dal Pd e cerca l’abbraccio con i centristi. Un nuovo partito, persino? Accordi in vista delle Amministrative? Macché, Renzi non pensa a nulla di tutto questo e giura che lui, sulle alleanze future, non intende metter bocca. A Monti, che lo ha chiamato anche per mostrare plasticamente che ha ancora voglia di giocare un ruolo in politica, ha detto con chiarezza che la sua lealtà  a Bersani «non è in discussione». E se pure il suo nome rimbalza nel totonomine per la formazione di un governo, nel caso il segretario del Pd dovesse fallire, Renzi smentisce «nel modo più categorico». Quando Floris gli chiede se sarà  lui il prossimo premier, Renzi ci ride su: «E secondo lei, dopo aver perso le primarie, io passo dall’uscita di servizio e rientro dentro? Io farò il premier quando vincerò».
Ha bisogno di tempo. Sei mesi, un anno. «Io sono in partita soltanto se c’è un secondo giro — ha detto anche a Monti —. Entro in ballo se il Pd chiama gli elettori a nuove primarie, a giugno o il prossimo anno. Questo non è il mio giro». E agli amici, che lo provocano con i nomi dei possibili avversari, lui risponde così: «Barca? Fassina? Diciamo che una sfida tra Renzi e Fassina mi sta bene. Affare fatto!». E a Ballarò ci scherza su: «Non me ne fate fare troppe di primarie, che alla terza che perdo mi danno la bambolina…». È tranquillo, persino carico. Il complicato scenario che si è aperto lo ha rimesso in gioco. Non c’è nulla di cui gioire, ma poiché Palazzo Chigi è il sogno di una vita Matteo scalda i muscoli. Parte da Firenze in treno e approda in taxi a Palazzo Chigi. Due ore a tavola con Monti e poi giù, verso la sede dell’Anci. Ma è solo un depistaggio: Renzi sale, prende alcune carte sul patto di stabilità  e fila via, beffando i cronisti. Dove sarà  andato? A casa di Bersani non c’è, al Pd nemmeno… Gira voce che sia riunito con Gentiloni, Realacci e Giachetti. E mentre tutti lo cercano lui semina indizi (falsi) via Twitter. «Sono all’Anci». Invece non c’è. Una cosa è certa, il Rottamatore non ha perso la voglia di scherzare. «Quando sono andato ad Arcore, Berlusconi mi ha invitato a pranzo e non a cena. Ha l’occhio clinico, lui…».
Monica Guerzoni


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Il passaggio del testimone

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GRILLO/DI PIETRO
Hanno camminato lungo la stessa strada. Per molto tempo Antonio Di Pietro ha guardato Beppe Grillo dall’alto in basso, trattandolo con guardinga presunzione. Dei due capipopolo lui era il primo arrivato su piazza. Non lo ha mai sfidato. E Grillo ha trovato sempre il modo di ripagare la cortesia, salvando solo Di Pietro dal suo generale crucifige. Quando ancora l’ex comico faceva eccezioni, queste erano tutte per le feste dell’Idv, i candidati dell’Idv, i referendum dell’Idv. Poi, molto presto, Di Pietro ha dovuto trattarlo da pari a pari. «Lo sento tutti i giorni», confessò.

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