L’insicurezza del Politico

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Sin dal primo libro che lo fece conoscere al grande pubblico – L’ordine psichiatrico – il suo «repubblicanesimo» non concedeva nessuno spazio al dubbio: la società  non può essere trasformata senza la conquista del potere politico.
Un libro figlio del suo tempo, che fa i conti con la critica alle istituzioni totali originate dal Sessantotto. Il potere psichiatrico, sosteneva Castel in forte sintonia con il pensiero di Michel Foucault, è una delle forme del potere pastorale esercitato dallo Stato sulla società  e sui singoli. La popolazione è oggetto di attenzione e di intervento al fine di prevenire conflitti che potrebbero mettere in discussione l’ordine costituito. Il ricercatore sociale, allievo di Raymond Aron e collaboratore, nei primi anni alla Sorbona, di Pierre Bourdieu, non si sottrae al confronto con chi sostiene che ogni istituzione è segnata dal virus autoritario che inibisce il libero sviluppo dei singoli.
Robert Castel è stato un intellettuale di sinistra, squisitamente riformista che riteneva lo Stato la massima espressione del Politico, perché aveva la capacità  di modificarsi ed evolvere alla luce dei conflitti sociali e di classe che caratterizzavano, e caratterizzano la società  capitalistica. Un intellettuale anomalo nel panorama francese, dove i maà®tre-à -penser ritenevano le scienze sociali una tecnica al servizio del potere. Per Castel, invece, l’analisi sociale poteva svelare l’arcano del governo e dello «stare in società ».
Da questo punto di vista ha incarnato quella figura di «intellettuale specific» che Michel Foucault proponeva come chiave di accesso alla politicizzazione dei rapporti sociali. E proprio questa valorizzazione di una disciplina del sapere «particolare» ha facilitato Castel nel fare i conti con quanto accadeva al di fuori dell’à‰cole des Hautes à‰tudes en Sciences Sociales, l’istituzione della ricerca francese che lo ha visto come uno dei docenti più «antiaccademici», capace di guardare con occhi disincantati, ma partecipi, a quei movimenti sociali da lui considerati tuttavia una variabile dipendente del sistema politico.
Questa concezione «riduttiva» dei movimenti non gli ha impedito di confrontarsi, valorizzare temi e argomenti che non trovavano posto nell’agenda dei partiti politici. Senza la valorizzazione del conflitto espresso da classi e gruppi sociali, il politico era destinato a una funzione di dominio, non di governo della società . Una attitudine «investigativa» e al tempo stesso spregiudicata, cioè non convenzionale, che ha trovato il suo risultato più importante in un volume pubblicato a metà  degli anni Novanta in Francia – in Italia è stato pubblicato solo alcuni anni fa con il titolo Metamorfosi della questione sociale, una cronaca del salariato, Sellino editore – in cui Castel sezionava la crisi del capitalismo incardinato sula figura del «salariato». Da qui l’esplosione di una nuova questione sociale, dovuta dunque all’eclissi del salariato, nonostante il regime del lavoro salariato mantenesse intatto il suo potere performativo dei rapporti sociali. Testo seminale e preveggente sul fatto che la mutata composizione del lavoro vivo – declino del lavoro di fabbrica, crescita del lavoro nei servizi e del lavoro autonomo-, andava di pari passo con il dilagare della precarietà .
Nella fine del Novecento, Castel vedeva inoltre profilarsi all’orizzonte la cancellazione dello Stato sociale, del Welfare state, cioè l’esito progressivo dei conflitti sociali, di classe e delle guerre che hanno segnato il «secolo breve». Una prospettiva da combattere, perché in ballo non erano solo i diritti sociali, ma la stessa democrazia. E non è un caso che dall’inizio del nuovo millennio Castel abbia più volte richiamato l’attenzione sull’aumento dell’«insicurezza sociale» – il titolo di un volume pubblicato da Einaudi – causato dalla «privatizzazione» del welfare state, fattore che colpiva a morte le basi materiali dello sviluppo economico.
Da buon riformista auspicava di innovare il welfare state, augurandosi, tra i primi intellettuali europei mainstream, l’introduzione del reddito di cittadinanza. Fino a abbandonare il suo consueto stile sobrio, denunciando che le ultime rivolte nelle banlieue francesi o negli slum londinesi erano l’inequivocabile segnale di pericolo che non poteva essere ignorato né potevano liquidarsi come manifestazioni criminali della racaille. Le sue prese di posizioni sono però rimaste il grido di allarme di un «repubblicano» che non voleva assistere inerme alla scomparsa del trittico – liberté, egalité, fraternité – che ha qualificato la sua adesione alla modernità .


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