Le ipotesi impossibili e il governo del presidente

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Lo staff del capo dello Stato: «Sarà  un mese di inferno» I presidenti della Repubblica sono abituati a essere oggetto di paragoni laudativi, costruiti su metafore più o meno curiose. Scalfaro, quando si congedò, fu definito dall’Economist «Italy’s nanny», il bambinaio d’Italia, perché — secondo il giornale — durante il suo mandato aveva agito come se i cittadini dovessero esser «accuditi alla stregua di bambini», e i «partiti novizi» guidati a ogni passo, impedendo così al ceto politico di emanciparsi. Napolitano, ieri, si è sentito equiparare a «un faro» che getterà  provvidenziali lampi in grado di squarciare il buio di questa stagione.
Riconoscimento che il capo dello Stato ha apprezzato ma anche ridimensionato, avvertendo che certe volte «si fa fatica nella nebbia» (che è peggio del buio) e offrendo comunque una garanzia: «Cercherò di fare del mio meglio, fino all’ultimo giorno». Uno sfogo rivelatore della difficoltà  di un momento che vede tutti appellarsi alla sua «saggezza» per risolvere il rebus nel quale ci ha gettato il risultato del voto. In realtà , e ogni attore in scena lo sa, di opzioni questo Quirinale ne ha una sola: un «governo del presidente». Il resto, ciò di cui alcuni insistono ad almanaccare, è garbo, finzione, suggestione.
Garbo doveroso verso il Pd, uscito dalle urne come vincitore-perdente, dovrebbe ad esempio imporre l’affidamento di un incarico esplorativo a Pier Luigi Bersani per un governo «di combattimento» (o meglio sarebbe dire «di minoranza», dati i numeri), che al momento non sembra avere chance, poiché punta al già  rifiutato consenso del Movimento 5 Stelle. Buone intenzioni a parte, è una missione impossibile. Platonica. A meno di imprevedibili invenzioni dell’ultima ora. O a meno che non si tratti di tattica pre-elettorale. Altre variabili circolate in queste ore, che vagheggiano maggiori possibilità  a un simile esecutivo se il candidato premier fosse diverso (come Anna Finocchiaro o magari Matteo Renzi), suonano ingiuste e offensive per il segretario del partito.
Finzioni appaiono poi certe irrealistiche congetture. Come quella secondo la quale Napolitano potrebbe lasciare la gestione della nuova fase politica al successore, dimettendosi in anticipo, cioè subito: semplicemente non esiste, e lui stesso è tornato a smentirla.
Ma non basta. Qualcuno discetta anche sul pericolo che, per effetto dello strettissimo incrocio di scadenze, le consultazioni che aprirà  questo presidente possano essere chiuse dal prossimo: ipotesi estrema, considerando che dal 19 marzo, quando si aprirà  il «consulto» sul Colle, alla prima convocazione (il 15 aprile) a Camere riunite per eleggere il nuovo capo dello Stato intercorre quasi un mese. Un tempo lunghissimo oltre il quale sarebbe assurdo trascinarci, data l’emergenza, e del resto le cronache ricordano che solo la gestazione del primo governo guidato da Giuliano Amato, nel ’92, ne richiese di più.
Ancora, e sempre restando nel campo delle finzioni che dovrebbero essere riconosciute come tali, c’è chi non rinuncia all’idea di «prorogare i tecnici». Sgangheratezza costituzionale assoluta, perché un’eventuale «ferma» dell’attuale esecutivo, anche se fosse in tutto e per tutto composto dalle stesse persone, dovrebbe comunque passare attraverso un voto di fiducia del Parlamento e attraverso un nuovo insediamento, il che significa che sarebbe un esecutivo diverso. Sarebbe, in definitiva, un «Monti 2».
E allora? Allora — e questa non è un’oziosa finzione — non resta che il «governo del presidente», che potrebbe ovviamente avere anche altre definizioni. Per il quadro politico di oggi, questa sembra l’opzione di maggiore peso. Un governo di rango istituzionale e con ministri dal profilo trasversale in grado di raccogliere convergenze ampie su un programma limitato. Ciò che non implicherebbe un vero e proprio patto politico tra i capipartito, e non avrebbe pertanto il sigillo di quel «governissimo» che il Pd vive come «un’ossessione». Non sarebbe, insomma, il frutto di un detestabile inciucio, ma un’espressione diretta del presidente della Repubblica. Che a sua tutela vestirebbe i panni del Lord Protettore. Pensando alle formule, potrebbe essere assimilabile al precedente del 1976 passato alla storia come «governo della non sfiducia», che si resse grazie all’astensione dei partiti del cosiddetto arco costituzionale.
E qui entra in gioco la suggestione di un secondo mandato del capo dello Stato al Quirinale. Mandato di sette anni ma che Napolitano potrebbe «tagliare» quando volesse, ma senza dirlo prima (infatti non si può ufficializzare l’intenzione di lasciare in anticipo), e lo dimostra quel che è successo con Benedetto XVI. Un’eventualità  che il presidente ha respinto per l’ennesima volta ieri, per motivi costituzionali e anagrafici, anche se sa perfettamente di non aver chiuso la questione. «Il prossimo sarà  un mese d’inferno», dicono, con cognizione di causa, gli uomini del suo staff.


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