Le facce nuove dei “non-onorevoli”

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DOVREMMO forse rimpiangere i vent’anni di politica decisi nelle residenze private dell’uomo più ricco d’Italia, nella villa di Arcore o a palazzo Grazioli, dove vergognosamente sono andati tutti in pellegrinaggio col cappello in mano?
A essere sinceri e detto senza alcuna simpatia per i loro capi, anzi con un’antipatia crescente nei confronti di Grillo e Casaleggio, i deputati e i senatori Cinque Stelle paiono il miglior gruppo umano approdato in Parlamento negli ultimi decenni. Il più di sinistra, per inciso. Ne abbiamo viste di faune della cosiddetta società  civile, in questi venti anni, sbarcare nelle istituzioni da marziani, con l’occhio già  famelico di poltrone, e farci presto rimpiangere i vecchi. Abbiamo visto l’arrivo a Roma ladrona delle tribù dei leghisti della prima ora, spaventati comici guerrieri, e le bande di berluscones miracolati a mazzi nel ‘94 e grondanti disprezzo per le «menate democratiche». Ma anche gli strani moralizzatori eletti da Di Pietro, in palese contraddizione antropologica con lo scopo, fra i quali soltanto un fesso o un disonesto poteva non riconoscere alla prima rapida occhiata i futuri De Gregorio, Razzi e Scilipoti.
Questi sono di un’altra specie. Hanno un’aria familiare. Assomigliano a un vicino, a un parente che fa il ricercatore, a un amico che era nel sindacato, a un vecchio compagno di scuola, all’insegnante di nostro figlio, all’unico impiegato del comune gentile che s’interessa del nostro problema e non ci fa perdere del tutto la mattinata. Brava gente onesta, insomma, come il pezzo d’Italia che affollava piazza San Giovanni alla vigilia del voto e da anni continua a mandare avanti questo paese. Il problema è un altro. Ora che non sono più volti nella folla, ma protagonisti, legislatori, riusciranno i nostri eroi a rendersi utili ai milioni di altre brave persone che li hanno votati? Riusciranno a far approvare quelle sette, otto cose di sinistra e di civiltà  necessarie per restituire dignità  e speranza al Paese?
La volontà  dice sì, la ragione e la cronaca di ieri dicono no. Grillo e Casaleggio arrivano in ritardo all’hotel vicino alla stazione, inseguiti come rock star da torme di giornalisti regrediti al livello del Paparazzo di Fellini. Sono agghindati come rock star, tipo lo zio di Jim Morrison e il cugino di John Lennon.
Non vi preoccupate dell’assalto dei cronisti, non li respingete. Stiamo cambiando la storia, per questo vi cercano La metà  degli eletti non li conoscono e non gliene frega molto. Interessa dare la linea («siamo tutti compatti, nessuna fiducia»), scegliere i capigruppi, non fra i più preparati, ma i due più fedeli a loro. Quindi salutano e se ne vanno. Non si capisce se al motto «uno vale uno» manchi una virgola. Uno, vale uno. Al massimo due, con il guru. Sul blog Grillo maledice la Costituzione — ma non era «l’unico nostro faro»? — in particolare l’articolo 67, dove si dice che i parlamentari non hanno vincolo di mandato. «Una truffa, libertà  di menzogna, circonvenzione di elettore» tuona. Uno dei tanti laureati in giurisprudenza dei Cinque Stelle potrebbe rivelare prima o poi al leader che il libero mandato esiste in tutte le costituzioni democratiche dai tempi delle rivoluzioni francese e americana.
Ma questa è una rivoluzione all’italiana, per finta e per lagna, dove alla fine non cambia nulla. Neppure la legge elettorale, il numero dei parlamentari, i privilegi della politica, per dire il minimo. C’era un Parlamento senza maggioranza e così rimane. C’era un governo tecnico e ne avremo un altro, soltanto di gran lunga meno presentabile. A Grillo piacerebbe Passera premier. Anche a Il Fatto, da pazzi. Grillo e la stampa amica spingono perché Napolitano dia l’incarico a Corrado Passera, uno dei manager più evanescenti che i poteri forti italiani abbiano espresso in questi decenni. Con un sottostante inciucio Pd-Pdl, in modo da accrescere lo schifo degli italiani per la politica. In fretta, prima che condannino Berlusconi. Nessun accordo con nessuno per fare davvero qualcosa di buono. «Sarebbe come se Napoleone avesse fatto un patto con Wellington », spiega il capo. A parte il paragone da corsia numero 6 (Cechov, specifico per i leader), non è proprio così. È piuttosto come se Lenin, preso il Palazzo d’Inverno, avesse chiesto allo zar di trovare una maggioranza alla Duma e dare l’incarico al vice di Kerenskji.
Perfino alla placida, moderata Svizzera le rivoluzioni riescono meglio. Con un piccolo referendum sugli stipendi dei manager i cittadini elvetici forse cambieranno la storia più di quanto farà  lo tsunami elettorale in Italia. Al termine del quale tutto è cambiato in modo che, ancora una volta, non cambiasse nulla. Non si parla appunto di modello Sicilia? A proposito, era il gattopardo, l’eterno gattopardo italiano, quello da smacchiare.


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