by Sergio Segio | 20 Marzo 2013 9:21
Tuttavia,alcune frottole aiutano a capire meglio le mentalità di un’epoca La storia è piena di falsi storici. Dalla donazione di Costantino al revisionismo Chi si occupa di storia lo sa bene: le menzogne, i falsi e gli errori sono talora più interessanti della verità e della veridicità . Prendiamo un esempio celebre, la cosiddetta Donazione di Costantino, documento apparso durante il pontificato di Stefano II (752-757), il quale andava rafforzando le relazioni con i franchi in funzione antilongobarda con la mira di assicurare al trono di Pietro la sovranità sul ducato romano e sottrarsi alle minacce degli stessi longobardi e dei bizantini. È appunto in questo contesto, con tutta probabilità , che nella Curia romana maturò il progetto della Donazione, il famoso falso che sarebbe stato smascherato solo verso la metà del Quattrocento dal filologo umanista Lorenzo Valla. Secondo questo documento, l’imperatore Costantino avrebbe concesso a papa Silvestro I il dominio universale spettante all’impero e simboleggiato dalle insegne sovrane. Per secoli questo documento venne impugnato dai papi per provare a spingere (con risultati alterni) la politica europea in direzioni confacenti ai propri desideri; in particolare sostenne a lungo le pretese di governo sulle cose terrene – e soprattutto su alcune regioni dell’Italia centro-meridionale – da parte del papato. Studiarne motivazioni ed esiti è per lo storico un esercizio critico di grande importanza.
Amnesie strategiche
E che dire del libro dei viaggi di John o Jean de Mandeville, un non troppo ben identificato cavaliere anglo-francese, che in un testo redatto verso il 1356-57 in francosettentrionale sosteneva di esser nato nella città di St. Albans in Inghilterra e di esser partito per mare il 29 settembre del 1322 per visitare – nell’ordine in cui egli pone le regioni attraversate – Costantinopoli, Turchia, Armenia Minore e Maggiore, Tartaria, Persia, Siria, Arabia, Alto e basso Egitto, Libia, Caldea, Etiopia, Amazzonia, India Minore e Maggiore, isole attorno all’India.
Il libro conobbe immediatamente un successo straordinario e di conseguenza traduzioni, volgarizzamenti e adattamenti di vario tipo. Ebbe più successo del racconto del vero (ma c’è chi sostiene il contrario) viaggio di Marco Polo, ma è chiaramente un falso, o meglio un centone di racconti altrui, di leggende, di topoi letterari antichi e medievali. Ma, allo stesso tempo, il testo di Mandeville è fondamentale per comprendere gusti, mentalità , attitudini del suo tempo; oltre ad esser stato, tradotto in inglese tra fine XIV e inizio XV secolo, uno dei testi basilari di quella «lingua di Londra» usata anche da Geoffrey Chaucer, che si avviava ormai a diventare lingua nazionale.
I falsi insomma sono degni di essere non solo e non tanto smascherati, quanto soprattutto analizzati. La nostra epoca, non solo il lontano medioevo, ne ha conosciuti e ne conosce molteplici; e probabilmente non è un caso se a farne un’analisi approfondita si impegni proprio un medievista, Franco Cardini, noto peraltro anche per i suoi numerosi «sconfinamenti» storiografici nella modernità e nella contemporaneità . In Arianna infida. Bugie del nostro tempo (Medusa, pp. 206, euro 14,90), Cardini raccoglie, aggiornandoli e dotandoli di una presentazione nuova, articoli pubblicati in questi ultimissimi anni: il più vecchio è infatti del 2005. Sono raggruppati per tematiche: Identità , Le fatiche dell’Occidente, Nuova finestra a Levante, Fides et Ratio, Italietta, Revisionismi.
Quale il filo rosso che le tiene insieme? Spiega Cardini: «Un rapidissimo survey relativo unicamente alle cose secondarie che in questo periodo mi è capitato di “seminare” su varie testate giornalistiche, spesso anche minori o minime, o addirittura di scrivere ma di non pubblicare mai, ha avuto l’effetto di far emergere da una lettura seriale incrociata (per ordine cronologico, quindi per argomento) una serie di temi e di situazioni rispetto alle quali mi sono con terrore dovuto render conto di quanto, in questa nostra civiltà dell’immagine, della notizia e dello spettacolo, la nostra memoria sia labile e le nostre amnesie individuali e comunitarie siano estese e ramificate».
La memoria non dimentica soltanto, ma spesso inventa. Come nel caso della costruzione delle identità nazionali (italiana, risorgimentale) delle quali Cardini parla aderendo pienamente a quel concetto di “invenzione della tradizione” ch’è stato felicemente proposto dal grande storico inglese recentemente scomparso Eric Hobsbawm. Interessante allora il parallelo con la costruzione di un’identità culturale individuale, un processo nel quale tutti incorriamo, più o meno coscientemente; operazione che Cardini esplicita attraverso un episodio autobiografico: un viaggio in una remota zona del Caucaso, l’Ossezia, sconvolta in anni recenti da rivolgimenti politico-militari da noi poco noti, che l’autore non aveva visitato mai personalmente, ma nella quale è “vissuto” a lungo attraverso i suoi studi e le sue passioni. Cosa è alla fine l’identità ? Una scelta, una condizione, l’adesione a un modello? La domanda resta aperta, e in tempi di costruzioni identitarie sbandierate a destra e a sinistra non è poco.
Una perpetua revisione
Rispetto al bel centone di Mandeville, divertente e spesso divertito, le costruzioni immaginifiche del nostro tempo appaiono più cupe. Sono le «fatiche dell’Occidente» di cui parla Cardini in riferimento soprattutto alla poca chiarezza che regna intorno alla nebulosa terrorismo/Islam che, non ce lo dimentichiamo, dall’11 settembre 2001 ci ha avvolti in atmosfere mefitiche e destabilizzanti. L’autore rirpende qui un argomento che gli è caro e sul quale negli anni molto si è speso al fine di «disincantare» weberianamente, dati e fatti alla mano, troppi di questi nuovi miti sui quali si sono costruite imprese militari e scelte politico-culturali scellerate dell’Occidente. È una storia che in un certo senso ci pare di aver accantonato (chi parla più non diciamo dell’Iraq, ma nemmeno dell’Afghanistan o del Mali, oggi?), ma i cui effetti disastrosi sono sotto i nostri occhi, se solo li volessimo vedere.
Il capitolo sui revisionismi, che conclude il libro, è in un certo indicativo del tono e del metodo dell’intero libro. Il «revisionismo» è in primo luogo associato con coloro che, a vario titolo, mettono in dubbio la realtà dell’Olocausto, e poi con quanti contestano le interpretazioni più correnti del Risorgimento, del brigantaggio, del fascsmo e così via. In realtà , originariamente il termine è stato più propriamente usato per indicare un atteggiamento nei confronti dei trattati internazionali e poi per qualificare alcuni interpreti del socialismo all’interno del pensiero marxista, ma con la critica storica non ha mai avuto niente da spartire, anzi applicarlo alla ricerca storiografica è un controsenso. La storia, più semplicemente, è revisione perpetua e continua. È verifica incessante di fatti, d’istituzioni, di strutture, di documenti, di metodi.
Il progresso scientifico e tecnologico, la scoperta di nuovi documenti, l’apertura di archivi finora chiusi, l’invenzione di nuove tecniche d’interrogazione del passato modificano incessantemente la storia. Perché il passato non è per nulla un dato immobile e definitivo; anzi, come mostra Cardini, esso si rivisita e si ricostruisce di continuo alla luce delle istanze del presente, delle aspettative circa il futuro.
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