La sinistra in ritardo
Sbarcati non da un “altrove” ma dal corpo stesso del Paese così come si era modellato e deformato negli anni Ottanta, sull’urto delle illusioni, dell’eversione delle regole, delle arroganze e dei rancori di quel decennio. All’indomani di quelle elezioni il leghista Speroni – di lì a poco ministro per le riforme istituzionali – proponeva di cambiare nome all’Italia (Unione italiana, suggeriva).
Mirko Tremaglia chiedeva la rottura del Trattato di Osimo e la revisione del nostro confine orientale (mentre infuriavano le guerre nella ex Jugoslavia), Gustavo Selva e Francesco Storace annunciavano epurazioni alla Rai e altrove, Umberto Bossi dichiarava guerra «ai sieropositivi della partitocrazia», Giancarlo Fini proclamava Mussolini «il più grande statista del secolo» e Irene Pivetti – presidente vandeana della Camera – aggiungeva che il Duce aveva fatto delle «cose molto positive per le donne e per la famiglia»(che cosa è, al confronto, l’abissale ignoranza sul fascismo della capogruppo grillina alla Camera?). Per non parlare della pretesa di Cesare Previti di insediarsi al ministero della Giustizia o della vocazione proprietaria ed estranea alla democrazia dell’uomo di Arcore. Non era infondato il pesantissimo monito che il presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, doveva inviare a Berlusconi alla vigilia del suo primo governo (dopo avergli imposto lo spostamento di Previti ad altro ministero): lo chiamava al rispetto della Costituzione e dell’Italia “una e indivisibile”, oltre che delle “alleanze internazionali” e della “politica di pace”. La rappresentanza del centrodestra non migliorò poi in corso d’opera, alimentata dalle convergenti coorti di indagati e di avvocati del premier, e puntellata da impresentabili transfughi. E oggi, pur travolto dai suoi crolli e fortemente ridimensionato, il berluscoleghismo può condizionare ancora il futuro del Paese.
C’è quasi da rallegrarsi, insomma, per quel che si è visto alla riapertura delle Camere, con l’inattesa e benefica luce di due presidenti di alto profilo (qualcuno ha stizzosamente parlato di “vittoria della non politica”: come se i diritti umani e la giustizia non siano elementi costitutivi e fondanti della migliore politica). In realtà interrogarsi sui contorni e le origini di questa legislatura a rischio significa interrogarsi anche su quel che la “seconda Repubblica” è stata. Cosa è maturato nel Paese in questi anni? Solo miasmi, solo il dilagare di corruzioni e abusi quotidiani, ben al di là della politica, o anche ansie nuove di democrazia cui i partiti non hanno saputo rispondere? Quali deformazioni profonde si sono consolidate nel modo di essere degli italiani e hanno reso possibile a un centrodestra così indecente di sopravvivere, almeno in parte, a se stesso? In che misura la fondatissima protesta contro la politica esistente si è mescolata anche a vecchi e nuovi umori dell’antipolitica? E perché questo è avvenuto? Non ha forse precedenti la vicenda di un partito d’opposizione che perde milioni di voti nonostante il crollo ancor più drastico del partito di maggioranza. Sullo sfondo vi sono le stesse ragioni per cui la stagione di Berlusconi è durata così a lungo: l’incapacità della sinistra di opporre allo sfasciarsi della “prima Repubblica” proposte convincenti e riformatrici di buona politica. Difficile stupirsi se la protesta si è abbattuta sia sulla vecchia maggioranza che sulla vecchia opposizione. Gridando «arrendetevi, siete circondati» Grillo ha certo ripetuto lo slogan di un assedio al Parlamento condotto vent’anni fa da un gruppo di giovani del Msi, guidati dal meno giovane Teodoro Buontempo detto “er Pecora” (a quell’assalto partecipava anche Franco Fiorito, il futuro “Batman di Anagni”). Eppure le piazze “a cinque stelle” che abbiamo visto – da quella di Mantova, tormentata dalla neve ma gremitissima, a quelle di Torino e Milano sino a San Giovanni a Roma – parlavano indubbiamente altri linguaggi. Perlomeno: anche altri linguaggi. Non dimentichiamoci troppo presto di quelle piazze, erano al tempo stesso una sconfitta e una vittoria della nostra democrazia. Una sconfitta di quel che essa è diventata, una condanna senza appello della sua incapacità di rinnovarsi pur dopo il trauma di Tangentopoli. Ma una vittoria, anche, per l’emergere di urgenze di rinnovamento che non hanno potuto trovare altri sbocchi. Parlano da sole del resto le tappe della resistibile ascesa di Beppe Grillo, a partire dal 2007 del primo V-day: l’anno in cui affondano le speranze riposte nel secondo governo Prodi ed emergono al tempo stesso gli umori che decretano lo straordinario successo di un libro-denuncia come La casta.
Sino al 2012, che vede declinare l’iniziale fiducia nel “governo dei tecnici”. E vede crescere la forbice fra i durissimi sacrifici imposti al Paese e i perduranti privilegi e sperperi di un sistema politico travolto dagli scandali.
Insomma, non vi è molto da stupirsi se una “seconda Repubblica” iniziata in quel modo, e con un centrosinistra incapace di rinnovarsi, è finita così. Un centrosinistra incapace di rinnovarsi: ancora una volta il vero nodo è questo. Per colpa anche della sua lunga cecità la situazione appare oggi quasi senza uscita: per questo l’unica via possibile è la radicalità della proposta da avanzare. Una radicalità senza precedenti, nei contenuti programmatici e nell’alto e nuovo profilo del governo che dovrebbe realizzarli: sapendo bene che la partita sarebbe ora ben diversa se questi elementi fossero stati presenti e centrali nella campagna elettorale, come moltissimi avevano chiesto anche su queste pagine. Una radicalità , infine, nella rifondazione del Pd. Una rifondazione che certo non potrà partire dal vecchio apparato o da ricambi interni ad esso e alle sue logiche: anzi, il suo abbraccio rischia di essere fatale per chiunque. Successe così, al di là di personali limiti ed errori, anche al “nuovo corso” del 1989 di Achille Occhetto: sostanzialmente gestito con gli apparati e con i metodi tradizionali, e per ciò stesso svuotato delle sue potenzialità .
Un’altra lezione di cui tenere conto.
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