by Sergio Segio | 27 Marzo 2013 8:42
Siamo in perenne sede vacante, con un governo che da mesi ha cessato di governare e un parlamento appena eletto che si prepara a essere sciolto.
Quando un giorno gli storici vorranno indagare la parabola della seconda repubblica, leggeranno nella tragicommedia dei due marò palleggiati fra Italia e India la biografia di una nazione che solo due anni fa celebrava con fervore il secolo e mezzo di unità . “Noi non capiamo, ma non ci abbandonate”: le parole di Salvatore Girone e Massimiliano Latorre — le due sole figure dignitose, quali che siano le loro responsabilità , nella sceneggiata in corso — rivolte al loro ministro prima di essere rispediti in India, echeggiano quelle, ben più drammatiche, dei nostri soldati abbandonati senz’ordini dal re e dai comandanti militari in fuga, l’8 settembre di settant’anni fa. Ieri come oggi: chi decide in Italia? Chi si assume la responsabilità delle scelte? Nessuno. In ogni caso, le colpe sono altrui.
Da quando qualcuno — non sappiamo ancora con certezza chi — ha improvvidamente ordinato ai due marò sospettati di avere ucciso due pescatori indiani di consegnarsi alle autorità locali, le strutture politiche, tecniche e militari deputate a gestire il caso sono riuscite a sbagliare ogni singola mossa. Prima che il senso delle istituzioni, è mancato il senso del ridicolo. Siamo riusciti in una triplice impresa: confermare il mondo nella convinzione che l’Italia sia un paese di furbi, i quali regolarmente finiscono vittime della propria astuzia; produrre una gravissima crisi politico- diplomatica con l’India — sulla quale il grado di conoscenza delle nostre strutture tecniche sembra rimasto alla prosa di Emilio Salgari; svelarci impotenti a difendere i diritti e la sicurezza di due nostri cittadini soldati, ciò che di norma pertiene alla primaria funzione dello Stato.
A ciò si sono aggiunte ieri, nel duello di Montecitorio, alcune aggravanti apparentemente di stile, in effetti di sostanza. Dopo tutti gli errori commessi, non poteva forse Terzi resistere alla tentazione di ergersi ad autoproclamato campione dell’“onorabilità del paese, delle Forze armate e della diplomazia italiana” e limitarsi a chiedere scusa, piuttosto che prenotarsi un seggio di destra nel prossimo parlamento? E perché mai Di Paola — forse inconsciamente aderendo al clima da “tutti a casa” — ha voluto paragonarsi all’ammiraglio Bergamini ed evocare la tragedia della corazzata Roma, gioiello della Regia Marina, affondata il 9 settembre al largo della Sardegna da una bomba tedesca, che spezzò la vita di quasi 1.400 marinai? Ancora: fa senso che il capo di Stato maggiore della Difesa, con un pronunciamento d’altri tempi, denunci la “farsa” in atto senza allegare contestuale lettera di dimissioni o senza che il governo gliela imponga?
E poi, risalendo ai vertici dello Stato, non può considerarsi normale che Monti — da tempo in tutt’altre faccende affaccendato — lasci che i suoi ministri si scannino in parlamento, quasi che la responsabilità ultima dello scaricabarile non sia sua. Così come sarebbe legittimo attendersi dal presidente della Repubblica, che pure questa vicenda ha seguito molto da vicino, una parola netta e chiarificatrice, a difesa della dignità nazionale.
Infine, la lezione più profonda e più amara. La crisi dei marò espone a chiunque non si rifiuti di vederla la deriva della tecnocrazia nostrana. Chiamata ad assumersi responsabilità politiche, si è rivelata tecnicamente impreparata a governare l’Italia. Scopriamo oggi che cosa significhi per un paese a debole legittimazione istituzionale e modesto spirito civico non disporre di una “nobiltà di Stato”, di quell’alta amministrazione selezionata per merito che nelle più antiche nazioni europee ha garantito, anche nell’ora più buia, continuità e prestigio alle pubbliche istituzioni.
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