La precondizione del Quirinale: Certezza sul sostegno in Aula
BERLINO — Un governo di minoranza, che va a cercarsi in Parlamento il voto di chi ci sta: come giudica Giorgio Napolitano quest’ipotesi coltivata da un Partito democratico che, nonostante l’estrema labilità del risultato elettorale, rivendica «la prima parola»? Sarebbe disposto ad avallarla, quando dovrà tirare le somme delle consultazioni al Quirinale?
Posta in questi termini ultimativi e brutali, la questione non può raccogliere risposte. Non adesso. Ma, se si ricordano le linee di concretezza su cui si è sempre mosso il capo dello Stato — basta pensare alla rete di sicurezza che volle garantirsi nel novembre 2011, tenendo a battesimo l’esecutivo tecnico di Mario Monti — sembra piuttosto difficile che guardi con favore a un simile sbocco. Almeno per come si presenta la situazione di oggi, e al di là dell’assoluta mancanza di fair play nelle risposte che Beppe Grillo provvisoriamente concede al candidato premier del Pd, Pier Luigi Bersani. Il problema infatti è che, come insegna l’esperienza, qualsiasi governo (di scopo o di cambiamento o comunque lo si chiami) che nasca con la tara d’essere “di minoranza” è di solito gravato dalla riserva che, se non riesce a superare subito la prova del Parlamento, poi non restano alternative diverse dal chiudere la legislatura.
Sarebbe, insomma, l’extrema ratio. Una soluzione-ponte, tutt’al più. Cioè quasi una carta della disperazione prima di arrendersi, congedare le Camere e riconvocare nuovo confronto elettorale. Ecco perché tra le preoccupazioni del presidente della Repubblica ci sarà anzitutto quella di affidare l’incarico di formare il governo a chi gli dimostri di disporre di una fiducia sicura fin dall’insediamento, senza mendicare di volta in volta in aula i voti necessari ad approvare qualche legge. Un principio che tanto più vale in una situazione critica come quella che i «dati agghiaccianti dell’economia» (parola del presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi) ci stanno consegnando in questi giorni.
Meglio dunque un governissimo, per Napolitano? Magari su modello di quella “Grosse Koalition” che ha consentito alla Germania di affrontare gli ultimi anni? Anche in questo caso è molto scivoloso azzardare preferenze. Il capo dello Stato, per la sua esperienza in Parlamento e dentro le istituzioni, certo comprende su quale strettissima strada si muove Bersani, vincitore numerico, ma non politico, delle elezioni. Sa ovviamente valutare come la sua necessità (per non suicidare il Pd) di includere in primis il Movimento 5 Stelle— che chiede tra l’altro misure urgenti sul conflitto d’interessi, falso in bilancio e corruzione — escluda di fatto la possibilità di alleanze con il Pdl. E anche la teoria di chi vorrebbe veder ancora insediato a Palazzo Chigi un tecnico (espressione che oggi in Italia fa venire l’orticaria solo a sentirla pronunciare), appare in questo momento temeraria.
In definitiva: oggi come oggi non si può dare niente per scontato, da parte del presidente. Tranne appunto un qualche scenario al buio. «Serve un governo», ripete. E il sottinteso è: un governo vero, con una maggioranza e un programma chiari. Per cui vale la pena di ricordare che normalmente la sua decisione finale dovrebbe maturare dal combinato disposto tra esito del voto e la consultazione con i partiti. Se il risultato fosse chiarissimo e se fossero inequivocabili le indicazioni delle forze politiche destinate a comporre la nuova maggioranza, non avrebbe alternative. Se però, come accade adesso, c’è una grande incertezza sulle prospettive di una nuova maggioranza, allora la Costituzione e la prassi gli permettono di esplorare senza vincoli altre vie. Sperando di trovarne di più sicure e politicamente accettate.
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