La non-rinuncia di Pierluigi

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Sarà  una Pasqua di passione. Un equilibrismo da giocolieri del lessico della politica, è una partita di ruzzle che si gioca tutta sui semi, sui non, sui quasi, sui pre.
IL LEADER del partito che ha non-perso le elezioni e che dunque in virtù della maggioranza numerica, non politica, ha avuto da Napolitano un pre-incarico ha condotto le consultazioni all’insegna del non-impedire un governo ed ha infine, ieri, non-rinunciato. È un semi-commissariamento, una quasi-sconfitta. La mano del presidente della Repubblica sulla spalla di Bersani è certo il segnale di un dissidio politico tra Napolitano e il segretario del Pd certificato dall’interminabile colloquio fra i due, un’ora e un quarto, quando è a chiunque evidente che per dire «non ho trovato i voti» bastava un minuto. Bersani è fieramente contrario ad un’intesa col Pdl, che in cambio dei voti di fiducia pretende il prossimo inquilino del Colle: posso essere io o Gianni Letta, ha detto Berlusconi. La “condizione non accettabile”. Ma è anche, questa inedita forma di collaborazione, l’esito di un’ostinazione che diventa estremo tentativo di non mandare tutto a monte, di non gettare la spugna, di provare ancora, due tre giorni ancora, insieme. Possono sembrare oggi, tutti questi semi tutti questi non, sofismi lessicali. Spasmi di un corpo agonizzante, si legge in rete, disperati tentativi di conservazione. Tuttavia sono anche, invece, il sentiero stretto attraverso cui provare a dare al Paese una risposta alla richiesta di rinnovamento e di riforme che tenga conto del voto popolare. Vediamo. Sono le sette e dieci di sera quando Bersani, stanchissimo e laconico, si presenta in una sala della Vetrata, al Quirinale, affollata sudata e nervosa. Gira voce che Grillo abbia un nome “coperto” che forse darà  oggi. Gira anche voce che in verità  sia già  pronto il “governo del presidente”, un nome indicato dal Colle per uscire dalle secche e per evitare, anche, di incagliarsi nell’ingorgo istituzionale prossimo venturo: dal 15 aprile si devono convocare le Camere per l’elezione del nuovo capo dello Stato e serve un governo, per quella data. Napolitano continua a ripetere di non essere disponibile ad una rielezione, seppure a termine e con dimissione incorporata. Donato Marra, il segretario generale, ha appena riferito che “l’esito delle consultazioni non è stato risolutivo”. Il governo non c’è, si sapeva. Ha anche aggiunto, Marra, che Napolitano si riserva di prendere “senza indugio” iniziative che gli consentano di capire e valutare “personalmente” il quadro politico. Cioè: dopo un’ora e un quarto di colloquio il presidente della Repubblica ha detto va bene, ho capito, da solo non ce l’hai fatta, vengo con te a vedere che succede.
Come un personaggio di Calvino il pre-incaricato dimezzato si presenta dunque alle telecamere. Stropicciato, stanco, pallido. Dice, in sostanza: mi sono trovato di fronte a “preclusioni” (il no del Movimento 5 stelle) e a “condizioni inaccettabili” (il baratto che il Pdl pretende con il Quirinale, terribilmente esplicito). Non dice, però: rinuncio. Una nota del Pd si affretta a farlo notare pochi istanti dopo, il portavoce di Napolitano Pasquale Cascella lo spiega ai vecchi amici: Bersani non rinuncia, sarà  Napolitano, da stamattina, a ripercorrere le tappe delle sue consultazioni per verificare che davvero non ci siano margini per affidargli l’incarico pieno, e di andare alle Camere a cercare fiducia.
Nel frattempo i cellulari dei cronisti impazziscono di notizie o pseudotali: Grillo sta arrivando a Roma, torna dalla Toscana per riunire i gruppi e dare finalmente un nome. Berlusconi è disposto a virare da Letta su Frattini, per il Quirinale. Napolitano pensa alla convergenza su Giuliano Amato. Tutti sanno, tutti ripetono che la vera partita è quella del Quirinale. Ma non ci sono più i partiti, non c’è più il mondo che da decenni conosce le regole di quel sofisticato meccanismo. C’è la paura, oggi, a scandire l’agenda. Come dice il film del momento, “Viva la libertà ”: è la paura la musica della politica. Nella Camera, alle otto di sera quasi deserta, arriva la nota: alle undici di venerdì Santo riprendono le consultazioni al Quirinale, si parte dal Pdl. E così si riavvolge il nastro dei sei giorni più lunghi di Pierluigi Bersani. Dalle 17.40 di venerdì 22 marzo, quando ha avuto il pre-incarico, alle 19,10 del 28 marzo, giorno della non-rinuncia. Una quasi-settimana che il segretario Pd ha iniziato con l’intenzione di prendere tempo, convocando Confcooperative e Coldiretti, Confprofessioni e Copagri. Passata per quello strano martedì 26 in cui ha visto Alfano e un’ora dopo, in convento, il cardinale Bagnasco mentre la rete brulicava di indiscrezioni su un appuntamento di Grillo con l’ambasciatore americano curioso di sapere del referendum anti-euro. Finita il mercoledì 27 con lo streaming del colloqui con i capogruppo Cinquestelle, quello che sembrava più che un incontro un processo, quello in cui Bersani diceva “o si va a messa o si sta a casa”, pregando i cinquestelle di fare un gesto di responsabilità , quello in cui la capogruppo diceva “le parti sociali siamo noi”. Ora il pre-incarico è congelato. Ora il semi-incaricato è affiancato dal Presidente, tutelato e quasi sostituito. Ora siamo al passaggio più stretto. Quasi una fine, un non inizio. Una semi-possibilità  di governo, uno scenario pre-greco, una non sconfitta.


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