La modernità del mito di Orfeo misterioso, animista, impalpabile
Orfeo è nominato per la prima volta dal poeta Ibico, che parla di «Orfeo dal nome famoso»: per Pindaro è «il citarista padre dei canti per virtù di Apollo»; per Eschilo, è «colui che incanta la natura intiera con i suoi carmi». A partire dal quinto secolo, le sue immagini si moltiplicano: lo vediamo su una barca, mentre suona la lira e incanta con la voce e la musica: circondato dagli uccelli e dagli animali selvaggi: mentre sale in cima a un monte, per adorare il Sole-Apollo, suo padre; o discende agli Inferi per accompagnare o farne uscire la moglie Euridice; finché le Menadi lo dilaniano e la testa, staccata dal corpo, continua a cantare i versi di un oracolo. Sebbene sia greco, Orfeo non appartiene alla tradizione omerica, né a quella mediterranea: risale indietro nel tempo, nel mondo magico preellenico. La sua biografia di musico e di cantore ricorda quella di uno sciamano: fondatore di misteri, iniziazioni e purificazioni, che conosciamo sotto il nome di «orfismo».
Secondo Orfeo e gli orfici, l’anima, per punizione di un crimine primordiale, viene rinchiusa nel corpo come in una tomba. La morte costituisce il principio della vera vita: l’anima si incarna una seconda volta, e poi si reincarna sempre di nuovo, condannata a trasmigrare fino alla liberazione definitiva. Gli orfici favoriscono questa liberazione, astenendosi dai sacrifici cruenti, obbligatori nel culto ufficiale, e rifiutando il sistema religioso greco, inaugurato dal primo sacrificio sanguinoso di Prometeo. Così, ritornando alle abitudini vegetariane, espiano la colpa ancestrale e sperano di recuperare la beatitudine originaria, quando tutto il mondo viveva in una condizione orfica.
Attorno alle origini del mondo, l’orfismo raccoglie una serie di miti. Il primo grande dio è Eros: scaturisce dall’Uovo primordiale, che è stato formato dal Tempo nell’etere, ed è il principio della creazione degli altri dèi e dell’universo. Oppure la Notte genera Urano e Gaia: o il Tempo emerge dall’Oceano; o l’Uno partorisce il conflitto. Un altro grande mito racconta che i Titani, figli della Terra, si gettarono su Dioniso bambino, lo uccisero e banchettarono con la sua carne. Zeus li folgorò con un fulmine, e da queste ceneri si generò la razza umana. Noi siamo dunque composti di natura divina e terrestre: nostro dovere è coltivare in noi il divino elemento dionisiaco e sopprimere quello titanico e terrestre, partecipando a riti di iniziazione e di purificazione.
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La Fondazione Lorenzo Valla e l’editore Mondadori stanno per pubblicare il quinto volume delle Metamorfosi di Ovidio sotto la direzione di Alessandro Barchiesi: testo critico di Richard Tarrant, commento di Joseph P. Reed. Tra i molti episodi, questo volume comprende una lunga e bellissima versione del mito di Orfeo, che una fitta serie di rapporti collega all’infinita e imprendibile totalità delle Metamorfosi.
Ovidio ama moltissimo tutto ciò che è iniziatico e misterico: tutto ciò che è nascosto e segreto: quindi dovrebbe amare questo aspetto di Orfeo; eppure non rivela la minima parte delle iniziazioni e purificazioni predicate dall’orfismo. Orfeo è, per Ovidio, sopratutto un narratore di metamorfosi: un suo doppio, proiettato nel mondo del mito, nel quale talvolta si affaccia il volto di un secondo narratore. Questi racconti discendono da quelli di Ulisse nell’Odissea: mentre Ulisse narra ai Feaci e ad Eumeo, attrae, ammalia, incanta, affascina; e come lui affascinano le voci di Ermes, delle Sirene, di Circe e di Calipso. Chi viene sottoposto al fascino perde il controllo di sé: posseduto, stregato, ridotto al silenzio; addormentato, diventato una cosa, costretto alla morte.
Così accade nelle Metamorfosi. Quando Orfeo canta e suona la lira, affascina gli uomini, gli uccelli, le belve, le pietre, sopratutto gli alberi: molti di essi hanno dietro di sé una storia umana. Il fascino accompagna ed avvolge le metamorfosi, che percorrono, dall’inizio alla fine, il libro di Ovidio. Il mondo non è semplice ed unico, come sembra: ogni figura contiene in sé un’altra figura, ogni apparenza contiene in sé un’altra apparenza. La morte colpisce il mondo, ma viene immediatamente abolita, e trasformata in un’altra esistenza, obbedendo ad una fluidità senza fine. Con arte sottilissima, Ovidio-Orfeo si china sul minimo, l’impalpabile, il leggerissimo: fissa il luogo dove le due figure si fondono; ma resta incerto se le sensazioni evocate appartengano alla figura che muore o alla figura che nasce, o alla doppia figura che nasce dal loro incontro.
Ecco il fanciullo Cipresso che diventa l’albero di cipresso: «Le sue membra, rese esangui dal pianto infinito, / presero a mutare tingendosi di verde, / e quei capelli, che un attimo prima scendevano / sulla candida fronte, a farsi ispida chioma: irrigidito, / ma gracile in cima, si protende verso il cielo stellato». Ecco il ragazzo Giacinto, che muore e diventa il fiore di giacinto. «Come quando qualcuno, in un giardino irriguo, stronca / viole, papaveri o gigli da cui sporgono fulvi pistilli, e quelli / subito appassiscono, chinano il capo diventato troppo pesante, / non stanno più ritti e con la corolla guardano il suolo, / così il volto del morente si abbandona, il collo, / perso ogni vigore, è di peso a se stesso e ricade sulla spalla…/ Il sangue, che sparso al suolo aveva macchiato l’erba, / cessa di essere sangue: spunta un fiore più fulgido / della porpora tiria e prende una forma simile al giglio: / solo che il giglio è d’argento, mentre questo è di porpora».
Non c’è limite alla morbidezza: mai, credo, racconto fu morbido come quello di Pigmalione innamorato della sua creatura di avorio e di miele. «Un giorno scolpì con arte stupefacente dell’avorio, / bianco come la neve, gli diede una bellezza che nessuna / donna reale potrebbe avere, e si innamorò del suo capolavoro. / Sembra una fanciulla vera, crederesti sia viva / e, se non fosse che è timida, in grado di muoversi: / è un’arte così grande che non si vede. È incantato, / Pigmalione, e nel petto prende fuoco per un corpo non vero. / Spesso accarezza la statua per capire se è carne, / oppure avorio, e non riesce a decidere per l’avorio, / le dà dei baci, gli sembra che siano ricambiati, le parla e l’abbraccia / e gli sembra che le dita affondino nelle membra / lì dove tocca, e teme premendo di lasciare dei lividi negli arti. / … Di nuovo la bacia, e con le mani le accarezza il petto: / l’avorio accarezzato si ammorbidisce, perduta la durezza / cede e si infossa sotto le dita, come la cera dell’Imetto / si fa duttile al sole e plasmata col pollice si piega / assumendo le forme più varie, e più è usata più cede. / Stupito, e incerto se esultare o temer di fallire, / più e più volte l’innamorato tasta l’oggetto del suo desiderio: / è proprio di carne. Le vene pulsano alla pressione del pollice».
Intanto il tempo passa e trascorre su queste figure che si muovono: il tempo, la cosa più leggera e impalpabile dell’universo. Ovidio-Orfeo si fa tempo. Allunga e protrae gli enjambements: corteggia la prosa, emula il parlato, gioca con l’ironia, e mai come qui la sua arte è meravigliosa.
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