by Sergio Segio | 17 Marzo 2013 8:19
Anche perché persiste ancora un certo grado di incertezza su almeno uno dei tre requisiti chiave che le nuove aziende devono dimostrare di avere per entrare nel club. Quello che si può dire è che, in tutto, 307 aziende non sono sicuramente molte, vista anche l’energia profusa e il tempo che il cosiddetto decreto sulle start up ha richiesto (l’intero periodo del governo Monti). Ma è probabile che il fenomeno sia in parte inespresso. Va sicuramente sottolineato che anche considerando un numero più ampio questa lista delle camere di commercio non esaurisce il panorama. L’obiettivo attuale non è disegnare una mappa completa del fenomeno start up in Italia, ma, al contrario, delimitare quei casi di aziende nuove o nate negli ultimi quattro anni che possano accedere a un certo grado di sostegno. Partiamo dunque con il dire che le start up che hanno avuto già successo e che rappresentano dunque i campioni della specie non sono presenti in questa radiografia. Inoltre — e questo è un punto chiave — il «caso» start up non si riduce alla sua valutazione quantitativa. Soprattutto in un Paese come l’Italia dove la meritocrazia nelle aziende come nella Pubblica amministrazione ha fatto fatica a trovare i propri spazi, il diffondersi di una cultura nuova legata al concetto di «crea il tuo lavoro» può dare un contributo sociale molto più ampio dei singoli posti di lavoro creati, avviando un modello alternativo.
L’augurio è che finito l’effetto marketing — per le aziende e le multinazionali comunicare ai quattro venti che si aiutano le start up va ora più di moda di Dolce e Gabbana — le nuove aziende possano entrare in una dimensione di normalità . Dall’analisi dei numeri delle camere di commercio emerge una maggiore reattività del Centro Nord. Il Piemonte (50) guida per adesso la corsa alle iscrizioni, seguito da Lombardia (47), Veneto (39), Toscana (26) ed Emilia Romagna (24). Se andiamo a guardare le Province quelle più attive sono state Torino (41), Padova (19), Trento (18), Milano (17) e Roma (16).
Da molte segnalazioni risultano però ancora casi poco chiari di rifiuti di iscrizione dalle camere di commercio probabilmente legate alla mancanza di esperienza o di comprensione delle nuove norme da parte di professionisti e commercialisti. Non che tutto sia decifrabile con immediatezza in effetti: per chi avesse ancora dei dubbi in queste settimane è risultato molto utile il blog Startuplex, nato in maniera informale su stimolo di Google e di alcuni avvocati dello studio legale Cleary Gottlieb. Da quanto emerge anche dal ministero dello Sviluppo economico sembra ormai pacifico che l’interpretazione potrebbe favorire gli sviluppatori di applicazioni. La legge prevedeva l’esistenza di uno di questi tre requisiti: brevetti, un certo numero di dottorati, o almeno il 20% del fatturato speso in Ricerca e sviluppo. Sul dubbio buon senso dei primi due requisiti che quasi fanno a botte con il concetto stesso di start up ci siamo già espressi. Facile dunque immaginare che il terzo potrebbe rivelarsi quello più concreto anche perché, come spiegano dal ministero, se le società hanno un paio di ragazzi che lavorano dal mattino alla sera per capire come sviluppare una app i loro «stipendi» possono essere contabilizzati come R&S. Diverso è il caso di una società di e-commerce tanto per intendersi. Sugli incentivi fiscali e sulla sede stabile in Italia mancherebbero infine le notifiche da Bruxelles anche se nulla di sostanziale dovrebbe emergere. E’ invece in mano alla Consob la palla del crowdfunding: entro l’inizio del mese di aprile dovrebbe essere pubblicata la bozza da mettere in consultazione.
Al netto delle nubi sull’interpretazione dei requisiti, il vero limite dell’operazione è quello dei sostegni finanziari che non sono mai partiti. Fin dai primi lavori della task force sulle start up guidata da Alessandro Fusacchia era stato chiaro come un’iniezione non solo di fiducia e regole ma anche di fondi (come avvenuto in altri Paesi come la Francia e lo stesso Israele diventato un modello internazionale) sarebbe stata un ingrediente vitale. Purtroppo nella legge alla fine non è rimasta traccia di fondi per dare una scossa all’asfittico settore dei venture capital in Italia (vale 70-80 milioni l’anno). Il ministro dello Sviluppo, Corrado Passera, ha promesso a più riprese la chiusura di un accordo con la Cassa depositi e prestiti per smuovere almeno 150 milioni. Ma quell’intesa, che era stata presentata come ormai fatta, sembra al contrario morta. Le speranze di averla sono ormai ridotte se non nulle.
Per paradosso a giorni verranno annunciate e sbloccate diverse decine di milioni di euro, provenienti da fondi europei, per le cinque regioni del Sud. Peccato che saranno distribuite sostanzialmente a pioggia.
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