‘Italia, liberati dai Draghi’

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Parla il premio Nobel Joseph Stiglitz (05 marzo 2013)  E’ cambiato tutto in America. E’ finita l’era della crescita senza fine, è chiusa la fase in cui la maggioranza vedeva migliorare il proprio tenore di vita, è storia del passato quel sentimento comune che era a portata di mano l’ingresso nella classe media, quella middle classe che nei libri, nei film era sinonimo di casa, auto e figli all’università . Sta finendo persino l’epopea del Sogno Americano, la bandiera che per gli americani e per coloro che hanno lasciato patria e affetti per venire negli Stati Uniti sventolava dicendo “qui avrai l’opportunità  che cerchi, basta che lavori sodo e sei un bravo cittadino”. Parola di un premio Nobel, Joseph Stiglitz, economista e professore alla Columbia University che ha dedicato a questo tema il suo ultimo libro “Il prezzo della disuguaglianza” (in uscita con Einaudi) e che racconta come negli ultimi trent’anni gli Usa siano finiti tra i Paesi avanzati ai primi posti in tema di disuguaglianza. Come è potuto accadere? Colpa dell’egoismo, dell’individualismo sfrenato, di una cultura che, dice Stiglitz a “l’Espresso”, ha visto prevalere «il singolo sulla comunità , il privato sul pubblico».

Lei racconta che la superpotenza America è ai primi posti della classifica della disuguaglianza tra i Paesi sviluppati. Com’è potuto accadere e quando ha cominciato a manifestarsi questo fenomeno?
«Gli anni Ottanta sono il punto di svolta. Fino ad allora, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, le disuguaglianze erano diminuite e non è un caso che quello sia stato il periodo di più rapida crescita economica negli Stati Uniti e in Europa. In America le disuguaglianze diminuivano sotto la spinta dell’aumento della produzione e della ricchezza nazionale, in molti Paesi dell’Europa anche grazie a un’azione di riforme mirate a ridurre le differenze sociali ed economiche. Essendosi invertito il trend, quando è arrivata la recessione del 2007 e 2008 si sono visti subito i risultati. Faccio un solo esempio: il reddito medio aggiornato all’inflazione è oggi inferiore a quello del 1968. Alla fine la fotografia è quella ormai resa chiara dallo slogan che in America esiste l’1 per cento che è sempre più ricco, mentre il 99 per cento degli americani peggiora giorno dopo giorno».

Quali sono state le scelte che hanno accelerato questo processo?
«Sono accadute molte cose, anche se è difficile analizzarle come un insieme. Durante la presidenza Reagan, per esempio, è stato ridotto il ruolo del sindacato, un’entità  importante per far migliorare la situazione di coloro che stavano più in basso nella scala sociale ed economica. La deregulation, a partire dal settore finanziario, ha avuto un ruolo decisivo perché furono cancellate norme utili a uno sviluppo equilibrato. Anche la politica fiscale con la riduzione delle tasse sui redditi più alti e sulle rendite finanziarie ha prodotto effetti negativi e l’esempio più eclatante lo abbiamo visto nei mesi scorsi con la vicenda dell’imprenditore milionario ed ex candidato alla Casa Bianca Mitt Romney che pagava in percentuale meno tasse della sua segretaria. Aggiungo che è una fandonia dire che imposte più basse sono il motore dello sviluppo e della crescita: la Svezia, dove le aliquote sono più alte che negli Usa, cresce meglio di noi e ha un tasso di disuguaglianza molto più basso rispetto al nostro».

Perché si è rotto quel tacito accordo che ha consentito a pochi di guadagnare moltissimo a condizione che anche tutti gli altri migliorassero in modo visibile e duraturo il loro tenore di vita?
«Determinante è stata la cultura che si è insinuata tra i manager delle grandi aziende: hanno teorizzato il diritto ad avere sempre di più in termini di stipendi e bonus sia quando le loro società  non andavano bene e licenziavano lavoratori per diminuire i costi, sia quando i conti miglioravano grazie a cause esterne e che non dipendevano dalla loro capacità  manageriale come la diminuzione del prezzo del petrolio. Io ho parlato con molti amministratori delegati che sono stati alla guida di aziende negli anni dello sviluppo per tutti: individuano nell’affievolirsi della ragionevolezza e dell’onestà  dei comportamenti il cambio culturale decisivo».


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