by Sergio Segio | 18 Marzo 2013 8:06
Quando Barack Obama salirà sull’Air Force One domani sera, per la prima volta da quando lui è alla Casa Bianca i suoi piloti avranno come destinazione l’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv. Nel primo mandato Obama fece un solo viaggio in quell’area: Cairo, giugno 2009. Aveva visitato Israele quand’era solo senatore, nel 2008. Questa “dimenticanza” gli è valsa nella destra Usa l’accusa di essere il presidente meno filo-israeliano nella storia degli Stati Uniti. Si spiega così l’attenzione che circonda questo viaggio: nonostante sia breve (tre giorni comprese le tappe in Cisgiordania e in Giordania), e malgrado la Casa Bianca abbia escluso ogni tentativo di rilanciare un “processo di pace”, almeno con questo nome.
Minimizzare le aspettative è la parola d’ordine a Washington. Eppure questa visita avrà un’importanza legata a profondi cambiamenti di scenario. Obama arriva in Israele dopo le primavere arabe – a cui lui stesso contribuì con quel discorso sull’Islam all’università del Cairo, poi con la decisione strategica di “mollare” il dittatore egiziano Hosni Mubarak – che hanno stravolto equilibri antichi e il cui esito finale è tuttora incerto. Tra lui e il premier israeliano Benjamin Netanyahu i rapporti di forze sono mutati.
«Strana coppia», li definisce l’esperto di Medio Oriente Aaron David Miller del Woodrow Wilson International Center di Washington. «Ciascuno di loro — sostiene — ha tifato per la sconfitta dell’altro ». Nel caso di Netanyahu il tifo fu evidente a favore di Mitt Romney nell’elezione presidenziale del 2012. Oggi Obama è due volte più forte: perché in carica per altri quattro anni, e perché in un secondo mandato non ha bisogno di cercare voti tra le varie constituency.
Mentre Netanyahu è indebolito dalle sue elezioni.
A questo si aggiunge un “sisma geo-economico” di cui ancora si stenta a capire la portata. L’America è alle soglie dell’autosufficienza energetica, ha quasi smesso di importare petrolio dal Medio Oriente, ben presto le sue risorse supereranno quelle dell’Arabia saudita e gli Usa diventeranno esportatore netto. Questo non significa che l’America voglia ritirarsi: il ruolo di leader mondiale le impone di restare l’arbitro di ultima istanza in Medio Oriente, anche se a dipendere da quell’area per il petrolio saranno solo gli alleati europei, la Cina e l’India. Ma il fatto che l’America non dipenda più dal greggio arabo è una rivoluzione, dalle conseguenze profonde sul suo ruolo.
Il basso profilo di Obama alla sua prima visita presidenziale in Medio Oriente provoca ironia. «E’ il primo presidente a fare solo turismo in Israele?» si è chiesto il columnist del New York Times, Thomas Friedman. L’itinerario include incontri col presidente palestinese Abu Mazen e ad Amman col re di Giordania, ma ha delle omissioni significative: a Gerusalemme non andrà alla Knesset (il Parlamento) preferendo parlare in un luogo meno politico come il centro congressi;
visiterà la chiesa della Natività a Betlemme ma non il Muro del Pianto né la moschea Al Aqsa. Tappa obbligata il memoriale dell’Olocausto, Yad Vashem. Al suo arrivo all’aeroporto di Tel Aviv passerà in ispezione una batteria anti-missili, prova del concreto sostegno dell’Amministrazione Obama all’Iron Dome (“cupola d’acciaio”), la difesa d’Israele contro i missili di Hamas, e quelli che un giorno potrebbero piovere dall’Iran, dotati di testata nucleare. L’Iran sarà in cima ai colloqui Obama-Netanyahu. Il presidente americano ribadirà l’impegno a difendere Israele contro l’aggressione; e la sua determinazione a impedire che Teheran si doti della bomba. Obama non dimentica che Netanyahu minacciò di sconvolgere la pace mondiale — e l’elezione
presidenziale americana — con un attacco preventivo all’Iran nell’estate-autunno scorso.
Sulla questione palestinese la Casa Bianca conferma che non avanzerà nuove proposte. I più autorevoli collaboratori di Obama però citano il documentario israeliano “The Gatekeepers” presentato agli Oscar e uscito nelle sale Usa: un’impressionante raccolta d’interviste con gli ex capi del Shin Bet (servizi segreti israeliani) che ammettono il fallimento della politica seguita finora verso i palestinesi, e indicano il dialogo come unica soluzione. L’opinionista israeliano Ari Shavit sul giornale
Haaretz assegna un ruolo decisivo a Obama per promuovere una Nuova Pace, spingendo in quattro direzioni: «Un congelamento dei nuovi insediamenti di coloni ebrei in Cisgiordania. Una cooperazione tra Egitto e Israele nelle reti idriche. Un accordo Turchia-Israele sul gas. Un piano saudita-israeliano- palestinese per finanziare con le risorse del Golfo la rinascita pacifica della Palestina».
Le facili ironie sul “turismo” di Obama dimenticano i ripetuti fallimenti di tutti i suoi predecessori che si erano dati obiettivi ambiziosi.
«Quattro presidenti americani — ricorda Rashid Khalidi, esperto del mondo arabo alla Columbia University — hanno voluto mediare un piano di pace, il risultato è che in 34 anni la pace è diventata più lontana e sfuggente di prima. Nel 1991, prima degli accordi di Oslo, la maggioranza dei palestinesi poteva ancora viaggiare liberamente, oggi un’intera generazione di palestinesi non ha mai potuto visitare Gerusalemme». Obama parte con aspettative ridotte, e un’agenda politica dominata dalla ripresa economica interna. In questo forse è più realistico di Jimmy Carter e Bill Clinton che vollero “passare alla storia”, e in Medio Oriente hanno lasciato un’impronta effimera.
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