India. Stupro del bus, s’impicca il capo branco

by Sergio Segio | 12 Marzo 2013 7:53

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Si è tolto la vita tra le 5 e le 5.30 di un lunedì mattina nella cella che condivideva con altri due detenuti di Tihar, la più grande galera di tutta l’Asia meridionale, 12 mila anime in una struttura che potrebbe accoglierne la metà . Massima sicurezza. Eppure nessuno lo ha visto arrampicarsi per legare il tappetino sul quale dormiva a una griglia di metallo fissata al soffitto alto oltre due metri. Non c’erano telecamere a vigilare sul capo della banda sotto processo per lo stupro e l’assassinio della ragazza di 23 anni massacrata il 16 dicembre 2012 su un autobus a New Delhi e morta due settimane dopo in un ospedale di Singapore, «la figlia dell’India» che ha dato a milioni di donne il coraggio di alzare la voce contro violenze e quotidiani soprusi. Lo hanno trovato impiccato durante il controllo di routine.
«Non era considerato a rischio suicidio», spiegano le autorità  penitenziarie nel tentativo di arginare la polemica sulla «grave mancanza di sicurezza» denunciata dal ministro dell’Interno, che annuncia un’indagine. Ram Singh aveva 34 anni, faceva l’autista, beveva, agli amici diceva «un giorno sarò famoso». Secondo la polizia era stato lui a organizzare la spedizione finita con il sequestro della giovane fisioterapista e del suo ragazzo, a portare su quell’autobus maledetto il fratello minore Mukesh, il maestro di ginnastica Vinay, l’addetto alle pulizie Akshay, il venditore di frutta Pawan e un sesto amico minorenne. Il mattino dopo gli agenti lo trovarono con una maglietta ancora sporca di sangue intento a lavare il pulmino. I vicini di Ravi Dass, la baraccopoli a sud di New Delhi dove la famiglia Singh si era trasferita dallo Stato del Rajasthan negli anni Novanta in cerca di fortuna, ricordano di essersi scaldati davanti a un falò acceso da Ram, forse per cancellare le tracce.
In un incidente automobilistico nel 2009 aveva riportato una grave frattura al braccio destro mai ricomposta. A quella menomazione si aggrappa il padre che non crede al suicidio e denuncia minacce e stupri subiti dal figlio in carcere: «Era ferito al braccio, non ci sarebbe riuscito. Aveva confessato il suo errore ed era pronto a qualsiasi pena, perché l’avrebbe fatto? Ram Singh non si è ucciso, è stato assassinato». Tesi rilanciata dall’avvocato che cerca di spiegare l’inspiegabile: «È un gioco sporco. Nessuna circostanza faceva pensare al suicidio, il processo stava andando bene». Tredici capi d’imputazione, udienze a porte chiuse in un tribunale speciale, l’incognita della pena capitale, odio e dolore senza fine. «È ingiusto che abbia scelto come morire — dice il fratello della ragazza torturata —. Avrei voluto che fosse impiccato pubblicamente. Uno in meno, restano gli altri ad aspettare la sentenza».
Maria Serena Natale

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