Il sogno del Libro di tutti i libri

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C on quale ingenua e fantastica dedizione all’arte del libro Roberto Calasso ha scritto i suoi saggi su L’impronta dell’editore (Adelphi, pp. 212, 12). Nessuno, a prima vista, potrebbe immaginare che egli sia ingenuo. Eppure, ancora oggi, Calasso trova che nulla sia più bello che lavorare sui libri. Nulla, per lui, è stato più bello che costruire per cinquant’anni libri Adelphi. Tutte le fasi sono affascinanti. Dapprima, con vasto sguardo, elaborare l’idea di una collana; poi scegliere i libri, tradurli, rivedere le traduzioni, scegliere la carta, scrivere i risvolti, inventare la copertina, cercando di tradurre con un’immagine sola, folgorante e misteriosa, l’intricata complessità  di ogni volume. Oggi è così raro trovare un uomo felice di quello che fa. Calasso è felice; e spiega la propria felicità  nella maniera più colta e ingegnosa, conversando con il lettore dei libri Adelphi, nel quale egli vede una specie di eletto.

* * *
Quando Calasso cominciò a pubblicare libri, il campo in Italia era occupato da Giulio Einaudi e dalla sua casa editrice. Giulio Einaudi non era colto: aveva letto pochi libri, e leggeva malvolentieri anche quelli che lui stesso pubblicava e portava al successo. Aveva un immenso, e lievemente perverso, desiderio di potere. In primo luogo, all’interno della sua casa editrice: metà  delle sue energie erano rivolte a dominare i suoi collaboratori, e a trasformarli in strumenti flessibili della sua mente. In secondo luogo voleva influenzare i lettori italiani del 1945 o del 1960, modellandoli a sua immagine e somiglianza. Sognava di formare un’Italia einaudiana; e, per molti anni, realizzò il proprio desiderio.
Nel 1963, ancora giovanissimo, Roberto Calasso cominciò a collaborare ad Adelphi, sotto l’influenza di Luciano Foà  e di Roberto Bazlen, il più divertente e amabile dei consiglieri. Il suo desiderio di potere era più sottile di quello di Einaudi. Non voleva essere un educatore e un pedagogo; e credo che un’Italia adelphiana gli sarebbe sommamente dispiaciuta. Amava giocare con i progetti e i libri. Amava quello che c’è di vagamente equivoco e avventuroso nel mestiere dell’editore: la parte di consigliere segreto, di uomo che sta nascosto tra le quinte, e suggerisce e insinua, raccontando storie misteriose e fantastiche. Voleva un potere occulto: potere che non era né illusorio né elusivo, perché attraversava le generazioni e penetrava profondamente nella società  più di quanto faccia il potere politico e pedagogico.
Con i lettori di Adelphi, Calasso stabilì un rapporto di fascinazione: li sedusse, li incantò, non li lasciò dormire, trasformandoli nelle piccole e grandi abitudini del pensiero e della vita. Capiva che non avrebbe pubblicato soltanto capolavori: ma non sopportava che qualcuno dei suoi libri suscitasse tedio; tutti — belli o brutti che fossero — dovevano brillare, provocare, eccitare. Con l’arte dei risvolti e delle copertine, con molti accorgimenti e trovate, voleva suscitare uno stesso clima, uno stesso profumo; come quello, diceva Don Chisciotte, che si respira nelle botteghe dei più squisiti guantai.
Così egli pretendeva di pubblicare non molti libri senza rapporto tra loro, ma un solo libro, un immenso «serpente di libri», anelli di una sola catena, che si rispondevano l’uno con l’altro, e avanzavano le stesse domande e le stesse risposte, o domande e risposte che si assomigliavano. «Un libro — insisteva Calasso — che comprende in sé molti generi, molti stili, molte epoche, ma dove si continua a procedere con naturalezza, aspettando sempre un nuovo capitolo, che ogni volta è di un altro autore. Un libro perverso e polimorfo, dove si mira alla poikilia, alla variegatezza, ma dove gli autori mirano a sviluppare una sottile complicità , che magari avevano ignorato nella loro vita». Non ho bisogno di aggiungere che questo è un sogno impossibile: nessun editore riuscirà  mai a pubblicare un solo «serpente di libri»; ma certo Adelphi è andato vicino a questo sogno più di qualsiasi altro editore recente.
Come Bazlen, Roberto Calasso nutriva una certa insofferenza per la pura letteratura: i libri erano per lui un risultato secondario, che presupponeva qualcos’altro. Chiedeva a un libro di essere un’esperienza unica, che tuffava le radici in una sostanza oscura, che non aveva paragoni con nulla di ciò che offriva la storia della letteratura. Così un elemento religioso, anche se non incanalato in nessuna delle religioni esistenti, costituiva la base e il fondamento dei libri che Calasso amava. «In ogni angolo della nostra esperienza — scriveva — noi siamo in contatto con cose che sfuggono al controllo del nostro io, e proprio nell’ambito di ciò che è al di là  del nostro controllo, si trova quel che per noi è più importante ed essenziale».
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I saggi contenuti nella parte più recente del libro sembrano avvolti da una specie di ombra. Calasso osserva che, col passare degli anni, via via che il XX secolo si spegneva nel XXI, la fisionomia delle case editrici andava dissolvendosi: oggi sembrano tutte, o quasi tutte, parti di una scolorita e monotona impresa. Al di dentro di ogni gruppo editoriale, la figura del vero e proprio editore, che ha sempre affascinato l’immaginazione di Calasso, tende a scomparire, sostituita dal cosiddetto manager, che si preoccupa (spesso inutilmente) di stampare libri che si vendono. Intanto Adelphi ha perduto il brillio degli Anni 70 e 80, quando pubblicava Roth, Kundera e la Ortese. Oggi, le novità  sono più rare: mentre Adelphi moltiplica le ristampe e le riedizioni — sempre eccellenti — dei grandi classici del Novecento, da Borges a Faulkner a Nabokov a Gadda. Tutto ciò è, in un certo senso, fatale: mentre gli anni passano, la letteratura di ogni Paese sembra dormicchiare e sonnecchiare, come se fosse spossata dall’incredibile scoppio di immaginazione, geni e talenti, che ha contrassegnato gli ultimi due secoli.
Roberto Calasso non ha perduto le sue speranze. «L’editore, se solo volesse, se solo osasse — egli scrive — avrebbe davanti a sé potenzialità  che un tempo non sussistevano»: imprese temerarie sono ancora possibili. Ha un ricordo. Quello di Aldo Manuzio, che, nel fiorire dell’Umanesimo, pubblicò un romanzo di ignoto autore, scritto in una lingua composita, fatta di italiano, latino e greco, con meravigliose xilografie: la Hypnerotomachia Poliphili, «il libro più bello che sia stato stampato sino a oggi. Un giorno, qualcuno potrà  sempre tentare di uguagliarlo».


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