Il petrolio e il dialogo L’apertura di Obama per cambiare gli equilibri

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NEW YORK — «Per ballare il tango bisogna essere in due», aveva detto qualche settimana fa la portavoce del dipartimento di Stato Victoria Nuland a chi le chiedeva di un possibile riavvicinamento tra Washington e Caracas: «Ci vuole qualche passo anche da parte del Venezuela». Come a dire che passi non ne erano venuti. Poi, addirittura, eccone qualcuno nella direzione opposta: l’espulsione di due diplomatici Usa decisa dal Paese sudamericano poche ore prima dell’annuncio della morte di Hugo Chà¡vez e l’oscura frase del «reggente» Nicolas Maduro che ha collegato i «nemici storici del Venezuela» alla diagnosi del cancro del presidente. Quasi ad accusare gli Stati Uniti di avere qualche responsabilità  nella morte di Chà¡vez.
«Menzogne, un pessimo avvio: evidentemente l’attuale governo non è interessato a un miglioramento delle relazioni con gli Usa», ha commentato a caldo Patrick Ventrell, il successore della Nuland al dipartimento di Stato. E il presidente Obama, pur non mostrando la malcelata soddisfazione di molti membri del Congresso per la scomparsa di quello che a Washington era considerato un dittatore, benché eletto, ha mandato un messaggio al popolo venezuelano che guarda avanti, senza esprimere alcun cordoglio: «Nel difficile momento della morte del presidente Chà¡vez, gli Stati Uniti ribadiscono il loro sostegno al popolo venezuelano e il loro interesse a sviluppare relazioni costruttive col suo governo. Mentre il Venezuela inizia un nuovo capitolo della sua storia, gli Stati Uniti continuano a promuovere i principi democratici, la legalità  e il rispetto dei diritti umani».
Parole fredde, apparentemente di circostanza, ma dietro le quali c’è una volontà  vera di riprendere il dialogo. Con un intento di riconquista dell’influenza perduta in America Latina — quell’influenza temuta e combattuta da Chà¡vez — che, se c’è, viene comunque dietro i tre principali obiettivi di Washington nei rapporti con Caracas: economia, legalità  e sicurezza. O, per dirla con parole più concrete: petrolio, lotta ai signori della droga (che imperversano in America Latina partendo proprio dalle loro basi venezuelane) e isolamento dell’Iran che sfida il mondo col suo programma nucleare e al quale Chà¡vez offerto una sponda.
In realtà  un primo tentativo di ripresa del dialogo c’è già  stato: nel novembre scorso Roberta Jackson, vicesegretario di Stato per l’America Latina, ha chiamato il vicepresidente Maduro che, apparentemente col consenso di Chà¡vez, ha avuto alcuni colloqui telefonici con lei. Niente di conclusivo, ma la proposta della Jackson di andare avanti a piccoli passi con un’agenda di ripristino della cooperazione nell’antidroga, nella lotta al terrorismo e nell’energia, non sarebbe stata respinta, secondo una ricostruzione del Miami Herald, giornale informatissimo sul «dossier» venezuelano. Da allora i colloqui tra i due Paesi vanno avanti a livello di funzionari di rango meno elevato, ma non sono stati interrotti.
Ora bisognerà  vedere quale sarà  l’impatto dell’espulsione dei diplomatici e della scomparsa di Chà¡vez. Dopo i funerali ci vorrà  un po’ di tempo prima che si depositi la polvere della retorica. Non è ancora questo il momento delle scelte pragmatiche. Ma Maduro, pur essendosi mostrato in pubblico un duro e fedele interprete della linea chavista e pur avendo stretto solidi legami con leader come il cubano Raul Castro e il boliviano Evo Morales che ostentano la cifra comune dell’antiamericanismo, viene guardato con interesse dagli analisti di Washington: «Maduro ha attuato scelte politiche radicali, ma a volte, come nel cambio di rotta nelle relazioni con la Colombia, si è mostrato anche pragmatico e conciliatorio: è più aperto al dialogo», spiega Javier Corrales, un docente di Amherst College che l’ha studiato a fondo.
Gli Stati Uniti promettono di non interferire nelle elezioni che potrebbero svolgersi tra un mese. E forse è vero che non si aspettano svolte immediate con un trionfo delle opposizioni in un Paese nel quale i 125 mila miliziani — posti da Chà¡vez a difesa del «socialismo bolivariano» — possono diventare combattenti armati.
Più probabile un’evoluzione graduale. Del resto, anche nei momenti di scontro più feroce con Chà¡vez, anche dopo il ritiro degli ambasciatori, il rapporto tra i due Paesi non si è spezzato. Il filo che li unisce è il petrolio: quasi metà  della produzione del Venezuela, che ha le maggiori riserve mondiali, finisce negli Usa. Chà¡vez batteva i pugni sul tavolo, voleva esportare la sua rivoluzione in mezzo mondo, ma alla fine la finanziava coi dollari americani. Gli Usa lo trattavano da pericoloso dittatore, ma preferivano rifornirsi di energia in Venezuela (oltre che in Messico e Canada) piuttosto che dipendere dal Medio Oriente.
Se i nuovi governanti di Caracas si occuperanno più di riforme interne che di movimentismo internazionalista, forse si riapriranno spazi di dialogo. Washington viene sempre guardata con sospetto, ma tra la crescita della potenza brasiliana e le incursioni cinesi, quella del Sud America «cortile di casa» degli Usa è una storia finita.


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