Il Paese reale «Così curiamo il lavoro malato nella periferia dell’industria»

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Ancora oggi, in piena crisi, ospita moltissime aziende e non solo dell’auto. In un locale al piano terra di un caseggiato popolare di corso Francia, l’arteria che va da Torino a Rivoli, c’è un’agenzia per il lavoro della Adecco. Ci lavorano quattro impiegate, tutte donne, perché coadiuvare i disoccupati sta diventando un lavoro a prevalenza femminile. Non ci sono code all’ingresso perché ormai molte procedure avvengono on line e in qualche caso, anche per i colloqui, si ricorre a Skype per guadagnar tempo.
Il fatto nuovo è che in Italia ormai abbiamo due sistemi paralleli di servizi per l’occupazione. Quello pubblico dei centri per l’impiego dove la ressa c’è e gli impiegati sono chiamati a sbrigare una montagna di adempimenti, dalla Cig alle vere e proprie chiamate di lavoro. E quello privato garantito da una ventina di sigle di cui i quattro big (Gi Group, Ranstad, Manpower e Adecco) fanno l’80% del mercato. Grazie alla legislazione di questi anni espletano diverse funzioni, si occupano di formazione, selezione, apprendistato, outplacement e soprattutto somministrazione. Il termine fa parte degli orrori del lessico del lavoro, come esodati o demansionamento, e indica l’assunzione a libro paga – da parte delle agenzie – di lavoratori interinali.
Nelle tante Collegno d’Italia a differenza che nel mondo politico non ci si divide su bocciare/assolvere Elsa Fornero. Non ci si aspettano nemmeno chissà  quali novità  dal monitoraggio sulla riforma, qui è come al pronto soccorso i medici non discutono dei massimi sistemi ma intervengono sul paziente. Con linguaggio tecnico si dice che fanno «caring» dei disoccupati, se ne occupano, li assistono, ricercano con loro un posizionamento di mercato che sia il meno generico possibile. Perché in questa emergenza la parola out è proprio «generico», quella vincente è «specializzato» che a sua volta ha cento ulteriori sofisticazioni perché la ristrutturazione a cui si stanno sottoponendo le imprese rimescola anche i profili professionali richiesti. E siccome un generico non lo puoi trasformare in specializzato solo scrivendogli un buon curriculum gli organizzi un corso di formazione gratuito, anche di un mese. Tanto sai che cosa chiedono le aziende e di sicuro non gli fai perdere del tempo. Monica Di Bello dirige l’agenzia di Collegno, è un’ex insegnante e gira il territorio per convincere le aziende ad affidarle in outsourcing ricerca e selezione del personale. Non è un gran momento nemmeno per i manager delle risorse umane che scontano anch’essi la «solitudine». Parlando con loro quasi giornalmente Di Bello avvicina fabbisogni delle imprese e domanda di lavoro e cerca di piazzare i suoi disoccupati.
Accanto alla consulenza offerta alle grandi come alle piccole industrie alle agenzie tocca anche il lavoro più duro, parlare con chi cerca un’occupazione e la vorrebbe qui e subito. Tocca raccontar loro che oggi persino al magazziniere viene richiesto l’uso del computer, un pò d’inglese e sapere usare le pistole automatiche che leggono i codici a barre. «Lo chiami come vuole, orientamento o tutoraggio, spieghiamo che per sopravvivere devono informarsi, essere disposti a muoversi e anche a cambiare azienda. Se necessario, ogni due mesi». Esercitare la pedagogia della flessibilità  non è un compito facile ma la durezza della crisi sta facendo cambiare molte teste. Una volta nella cintura torinese un lavoro a 25 km di distanza lo si rifiutava, oggi nessuno si sogna di farlo. «Da parte nostra – dice Di Bello – consigliamo di non rifiutare il lavoro anche se temporaneo, un’esperienza di sole due settimane a volte può servire a ricaricare l’autostima mentre stare a casa debilita». Così se una volta – e non 100 anni fa – l’operaio della cintura torinese poteva pensare di tornare a casa per pranzo, oggi anche le donne accettano di lavorare su 3 turni, notte compresa. Naturalmente chi vive in un’agenzia che dà  sulla strada vede di tutto: quelli che passano almeno una volta a settimana per chiedere novità , quelli ansiosi che si muovono appena vengono a sapere che la loro azienda va male e poi ci sono quelli che vogliono cambiare lavoro per migliorare. Per fortuna certe figure professionali sono ancora ricercatissime, il collaudatore di macchine tridimensionali o il tecnico di elettroerosione sono difficili da trovare. L’industria meccanica cerca di affrontare la crisi «salendo di gamma», ovvero sviluppando lavorazioni più sofisticate e la ricerca di operai/tecnici segue lo stesso itinerario.
Chi riceve la cassa integrazione o l’indennità  di disoccupazione non sempre dice sì, non gli va di rimettersi in gioco con un contratto che dura solo un paio di mesi. Anche alla domanda «sei disposto a frequentare un corso di formazione?» in tanti rispondono «no, cerco lavoro», così facendo però il cane si morde la coda perché le aziende sono sempre più selettive nelle loro richieste e non vogliono sentirsi proporre «un ragioniere disposto a fare un lavoro qualsiasi». Ma il certosino lavoro d’agenzia per fare matching, far combaciare domanda e offerta, quanto vale rispetto all’emergenza dei 3 milioni di disoccupati? Risponde Maria Grazia Alfarone, che si occupa di profili professionali ad alta specializzazione: «Delle volte hai la sensazione di voler svuotare il mare con un secchiello. Ci sarebbe bisogno che le aziende italiane investissero qui e non delocalizzassero e che ci fosse un governo che le incentivasse ad assumere. Ma sono cose che non possiamo decidere noi, mentre in concreto possiamo aiutare un tornitore e fresatore a presentarsi meglio, a scrivere un buon curriculum, a rispondere alle richieste delle aziende con competenza». Un lavoro così delicato assomiglia a quello «ospedaliero» di medici e infermieri. «Ogni sera di fatto ti porti il lavoro a casa – scherza Alfarone – guidando mi viene in mente che quel candidato potrei proporlo a quell’azienda e magari non ci avevo pensato. E’ un classico».
Come Maria Grazia anche Alessandra Passet è laureata in scienze politiche e in agenzia si occupa di selezione. «Non so se ho sbagliato facoltà  anch’io ma questo lavoro mi piace. Del resto oggi qui in zona gli unici che possono scegliere sono gli ingegneri meccanici ed elettronici. Li cerco ma non ne trovo abbastanza. Intanto vedo che le selezioni diventano più lunghe e difficili perché le aziende non hanno fretta di assumere e così una ricerca può durare anche due-tre mesi. Lo spartiacque è stato il 2008, da allora tutto è cambiato». Visto dalla sua scrivania il futuro di Torino deve rendersi autonomo dalle scelte della Fiat, l’auto da sola non può garantire sviluppo a questo territorio, magari bisognerebbe riconvertire qualche azienda per produrre energia rinnovabile. «Comunque francamente non so se tutti i disoccupati abbiano la vera percezione di ciò che sta accadendo e forse non solo loro. Che senso ha discutere di articolo 18, meglio sostenere le aziende che assumono o fare formazione ai lavoratori espulsi dal processo produttivo». Ma nella fatica immane che bisogna fare per avviare al lavoro qualche disoccupato, il sistema pubblico e quello privato come convivono? La risposta che viene da chi opera in agenzia è che il loro è un servizio ad personam mentre i centri per l’impiego sono sommersi dalla burocrazia. «Non sono nostri concorrenti e qualche volta collaboriamo. Ci scambiamo informazioni utili e pubblichiamo da loro i nostri annunci. Nella piccola dimensione non ci sono conflitti tra pubblico e privato, il vero timore è un altro: vedere entrare una persona, parlargli a lungo, guardarla uscire e pensare che sicuramente si è sentito meno solo ma si è creato anche delle aspettative. E toccherà  a noi farle seguire dai fatti». Ma quante volte ci si riesce?


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