Il mondo salvato (anche) dalle pecore

by Sergio Segio | 22 Marzo 2013 9:31

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Ogni famiglia felice si fraintende a proprio modo. E così succede che, mentre una mamma e un papà  della buona borghesia credono il giovane e intelligente Filippo intento nei suoi alti studi di economia a Stanford, questi irrompa in un convegno a Oxford accompagnato da un gregge belante di pecore. Pecore vere.
È spiazzante l’inizio di Non so niente di te, il romanzo che segna il passaggio di Paola Mastrocola da Guanda a Einaudi. Spiazzante non solo nella combinazione narrativa, ma anche nella «metafisica del racconto». Si parte dallo stupore di Guido e Nisina Cantirami, lui avvocato benestante, lei arredatrice per diletto, che scoprono un’ombra sulla vita apparentemente regolare del loro figlio maggiore. Da email, sms, conversazioni via Skype, lui offre un ritratto rassicurante da studente di economia come tanti. Ma, da un’improvvisa falla, una realtà  ben diversa irrompe con veemenza crescente, tratteggiando una vita differente. Emerge una scelta netta, da rivoluzionario moderno che mette in discussione la «vecchia» economia. Inizia qui il faticoso viaggio della famiglia alla ricerca del «vero» Filippo, in un crescendo di tensione alla Dà¼rrenmatt, nell’indagine più difficile che esista: conoscere i propri figli.
Nei suoi romanzi precedenti, ma soprattutto nei saggi (come nel Saggio sulla libertà  di non studiare, edito da Guanda), Paola Mastrocola ha costruito, negli anni, una visione alternativa al conformismo sociale: un’istruzione malata e un sistema culturale in declino (è la sua riflessione) forse hanno alle spalle un modello di sviluppo da rivedere. E in questo racconto la sensazione è che la scrittrice torinese abbia saputo condensare le riflessioni su economia, società , desertificazione culturale in una storia complessa, tesa e scritta con la consueta eleganza. Proprio come un progressista dostoevskiano, Filippo Cantirami non sceglie la piazza, ma la resistenza morale. La strada individualista alla Ayn Rand e non la risonanza mediatica di Occupy Wall Street. Convinto che l’attuale crisi economico-finanziaria sia innanzitutto un’apocalisse morale.
Paola Mastrocola così appaia i destini dei personaggi (indimenticabile quello di zia Giuliana, una «ragazza di mezza età », fallita solo per chi ha lo sguardo ottuso) ad un manifesto economico in controluce. Che va oltre la decrescita felice: invita ad un consolidamento dei volumi attuali, a una valorizzazione di «quel che si ha», contrapposta a un desiderio che si autoriproduce. C’è l’eco di Nikolaj Berdjaev, con la sua lotta al «medioevo dei valori» e la sua difesa della creatività ; più che di Serge Latouche, paladino della decrescita, si sente l’influenza colta di Fritjof Capra, il fisico austriaco che, ne Il punto di svolta (Feltrinelli) auspica una visione globale delle cose, non settoriale. Ecco lo «scontro» tra il perbenismo convenzionale dei coniugi Cantirami, il «puro» Filippo e la giovinezza agée di Giuliana. E la famiglia resta sullo sfondo, attonita.

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Un estratto del libro
di di PAOLA MASTROCOLA
«Ordinate e belanti invasero la sala intrufolandosi tra tutte le poltrone»
Alle dieci e trenta di quel mattino di novembre, la sala più capiente del Balliol College era già  gremita da centinaia di persone che, compostamente sedute, aspettavano l’inizio della conferenza. Giovani studenti di varie nazionalità  e professori di mezza e tarda età , dai capelli più o meno grigi, sciarpe scozzesi strette al collo e morbide giacche di shetland. Un vocio disciplinato animava la sala.
Il primo relatore, un giovane economista italiano già  assurto a fama internazionale per i suoi studi sulla teoria dello sviluppo, arrivò puntuale, alle undici meno cinque. Era un ragazzo dalla capigliatura riccia scombinata e dall’aria timida e confusa. Una giacchetta corta, sgualcita. Salì sul palco, salutò il decano del college che lo avrebbe di lì a poco presentato; si sedette al tavolo e dispose fogli e computer davanti a sé. Si chiamava Jeremy Piccoli e l’università  di Oxford lo aveva invitato a parlare della sua sorprendente scoperta, un particolare algoritmo, noto ormai al mondo accademico come algoritmo di Jerfil. Un procedimento di calcolo che forse, se opportunamente applicato, avrebbe potuto secondo alcuni cattedratici ottimisti favorire la ripresa della crescita degli Stati occidentali, fortemente provati dalla recente crisi dei mercati. Il secondo relatore invece era in ritardo e nessuno lo conosceva. Il suo nome era stato aggiunto all’ultimo, perché Jeremy Piccoli aveva chiesto agli organizzatori della conferenza, come condizione imprescindibile, che fosse invitato anche lui a parlare, spiegando che si trattava di un suo brillante compagno di studi nonché amico, al quale doveva in massima parte l’invenzione dell’algoritmo.
Alle undici in punto Jeremy Piccoli si avvicinò al microfono. Annunciò che solo dopo l’arrivo del collega avrebbe cominciato (…). Dopo qualche videata di PowerPoint, entrarono le pecore.
Si sentì dapprima un insolito trapestio provenire dall’esterno. Poi sulla porta, dietro al pubblico, apparve un giovane alto e bruno, i capelli corti. Indossava un completo di fustagno grigio e, buttata per traverso, una sciarpa a righe con gli stemmi, stile college. Procedeva lento, le mani in tasca. E gli venivano dietro quelle pecore. Cioè, a vederlo comparire per primo sulla porta, nessuno avrebbe fatto una piega: ecco l’altro giovane relatore, ma guarda che aria distinta, che bel vestito. Peccato che si portava dietro decine e decine di pecore. Bianche e lanose, ammassate le une alle altre: un gregge. Un gregge di pecore cinerine, per l’esattezza: una massa compatta di lana biancosporco da cui uscivano il muso nero e le zampe nere. Pecore di quella particolare razza, molto comune in area britannica, denominata Suffolk.
Centinaia di pecore Suffolk invasero dunque la sala conferenze del Balliol. Procedendo sempre ordinate, moderatamente belanti, cominciarono a occupare ogni spazio. Alcune già  s’intrufolavano tra le poltrone, affollavano il proscenio; altre indietro, ancora sulle scale. Tutte comunque discrete, composte. Jeremy Piccoli sbiancò e smise di parlare. Alle sue spalle, sul megaschermo, lampeggiava inerte l’ultima frase del suo discorso introduttivo. Arrivato sotto il palco, il giovane in abito grigio salì i pochi scalini, strinse la mano ai professori esterrefatti, abbracciò come nulla fosse l’amico e collega Jeremy e si sedette sulla poltrona lasciata libera, davanti alla quale, sul lungo tavolo, troneggiava la targhetta col suo nome: FILIPPO CANTIRAMI.

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